L’OPERATRICE SOCIO-SANITARIA RISPONDE

“Sollievo”: la parola-chiave di questa interessantissima intervista. Selene Perna, attraverso le sue parole, ci porterà alla scoperta della sua professione, mostrandoci l’importanza e la delicatezza della figura dell’Operatrice Socio-Sanitaria.

1) Cosa ti ha spinta a intraprendere il percorso di operatrice socio-sanitaria?

Vengo da un lavoro che si occupava già della cura della persona. Poiché attraversavo un momento in cui avevo voglia di sperimentare altro, comunque sempre nell’ambito della cura alla persona, sono andata ad accudire una signora di novantanove anni. A conclusione dell’esperienza, ho subito capito che questo lavoro avrebbe potuto rappresentare la mia strada professionale.

Dunque, mi iscrissi al corso di OSS, Operatore-Socio-Sanitario, e intrapresi questa avventura.

2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio tecnico-sanitario?

Potenziali difficoltà le ho scoperte durante il corso di OSS. Una delle mie materie preferite era infermieristica e, proprio perché mi piaceva, non ho fatto particolarmente fatica ad approcciarmi e ad apprendere il linguaggio tecnico.

Anzi, non avendo conseguito il diploma di maturità, e non potendo quindi accedere all’università, ho scelto questo corso perché era l’unico che mi consentiva di seguire la mia passione e vocazione.

3) Qual è la “missione” dell’operatrice (o dell’operatore) socio-sanitaria?

Penso che la “missione” dell’OSS sia quella di portare sollievo. Più che la parte pratica, credo che, lavorando a domicilio, sia importante entrare in casa degli utenti con il sorriso e, appunto, offrire sollievo alla famiglia quando c’è un problema.

Secondo me, il poter rendere “leggera” la mezz’ora o l’ora trascorsa insieme è la cosa più importante. Mi sto rendendo sempre più conto che il rimando che ho da persone, purtroppo in fin di vita, sia impagabile. Ad esempio, mi fa immenso piacere quando l’utente mi dice “quando arrivi tu porti il sole e in quell’ora dimentico la mia malattia”. In tali casi, io ho vinto.

4) Veniamo all’importanza delle parole nella tua professione. Innanzitutto, facciamo un po’ di chiarezza: la definizione della tua figura professionale richiama sia l’aspetto “sociale” che “sanitario”. Come si coniugano, dunque, questi due ambiti?

Sono due aspetti totalmente differenti. Volendo semplificare, l’ambito sanitario comporta il prendersi cura della persona, aiutandola nella vestizione, nel nutrirsi, nel lavarsi, nei bisogni primari.

Dal punto di vista sociale, entrando nel menage di una famiglia devi entrare in relazione con essa, adattandoti alle loro regole, abitudini e con tutto ciò che attiene alla gestione della quotidianità. Io penso che l’aspetto sociale, nella mia professione, conti anche di più di quello sanitario, in quanto la parola e la comunicazione sono alla base di questo lavoro.

5) Qual è differenza fra operatore socio-sanitario e infermiere?

Sicuramente, la responsabilità. L’OSS svolge le attività legate ai fabbisogni primari delle persone; mentre l’infermiere si occupa anche della terapia, talvolta invasiva, non rientrante nelle attività tipiche dell’OSS.

Tuttavia, l’OSS e l’infermiere operano, cooperano e collaborano. Dunque, sono delle figure che s’incastrano molto bene.

Differenze vi sono anche sotto il profilo degli studi. Il corso per OSS ha durata di un anno; invece per infermiere è prevista una facoltà universitaria

6) La tua figura, perlopiù, sta a contatto con anziani, disabili e pazienti psichiatrici. Quanto è importante dialogare con queste persone? Secondo la tua esperienza, una chiacchierata può portare benefici alla loro malattia o condizione?

Per ogni patologia, oltre a saperla riconoscere e gestire, è opportuno utilizzare una comunicazione totalmente differente. Sicuramente, la parola-chiave è “empatia”: riuscire a empatizzare con la persona che ho di fronte a volte è semplice, altre più difficile. Tuttavia, ultimamente, sto riscoprendo che, purché si pensi che (ad esempio) uno psichiatrico o un malato di Alzheimer non possa darti niente come bagaglio culturale o di esperienza, è totalmente sbagliato. Ogni volta che esco da una famiglia, mi porto sempre dietro un racconto, un’esperienza o qualcosa che non conoscevo.

Ricordo con piacere la chiacchierata con un signore psichiatrico, il quale, facendomi tante domande, ha chiesto il nome di mio figlio, Elia. Essendo questo signore molto religioso, mi ha raccontato la vita e tutto ciò che fece il profeta Elia, arricchendo notevolmente la mia conoscenza.

Per cui ogni conversazione con i miei utenti è davvero preziosa.

7) Utilizzi particolari tecniche comunicative per interfacciarti con gli utenti?

A volte sì, a seconda della patologia. Però io credo (e non è un vanto) di avere un carattere così espansivo e solare che spesso mi dimentico chi ho davanti. Mi dimentico della malattia e cerco di essere il più possibile me stessa.

Perciò non credo di aver mai fatto fatica a interfacciarmi con nessuno. Sono così.

8) Stando alla tua esperienza, è importante, al fine del tuo lavoro, conoscere la diagnosi dell’utente con cui hai a che fare? Se sì, in che modo ha importanza?

È importante conoscerla dal punto di vista tecnico: se devo andare a movimentare una persona con una patologia o psicosi, posso stare attenta a non nuocere o non alimentarla.

In realtà, non do così tanta importanza alla malattia. Quello che conta, secondo me, è che nelle ore trascorse insieme la persona stia bene. Addirittura, a volte io la malattia non la vedo, proprio come la disabilità: riesco ad andare oltre.

Non nascondo che, soprattutto nei casi più gravi, mi chieda come faccia, ma proprio non vedo la patologia ma solo la persona. Anzi, delle volte mi domando se, in rapporto a quell’utente, ho detto troppo: in realtà la malattia difficilmente la considero e, di conseguenza, riesco ad essere me stessa, a prescindere dalla diagnosi dell’altro.

9) Hai mai trovato difficoltà a relazionarti con un utente o con i familiari?

Dopo oltre dieci anni di esperienza, riesco a entrare in ogni famiglia inizialmente in punta di piedi, per poi rendermi conto che imparo a capirne i meccanismi. Quindi, in verità, non mi è mai capitato che una famiglia mi abbia rifiutata come OSS. Credo che ciò sia molto legato sia all’etica professionale che al mio carattere, il quale probabilmente è un dono.

10) Ci sono state delle conversazioni con utenti che hanno cambiato il tuo modo di vivere e affrontare la vita?

Sì, credo tutti i giorni. Stando a contatto quotidianamente con la sofferenza, a volte, quando arrivo a casa stanca, nonostante i problemi che uno ha, ripenso a queste famiglie e mi accorgo di essere molto fortunata. Ultimamente, mi rendo conto che la sofferenza è tanta, poiché la gestione di questi parenti a casa è pesante, toglie energie.

Io sono dell’idea che per chi svolge il lavoro di caregiver sia una missione.

Talvolta, mi chiedono come faccia a svolgere questo lavoro. Da un lato, appunto, è una missione; dall’altro mi rendo conto che faccio ingressi davvero veloci (al massimo un paio di ore) e, dunque, sono consapevole che quando io esco lascio tutto lì. Viceversa, per chi vive costantemente questo disagio e questa sofferenza il bagaglio è sicuramente più pesante.

11) Che ruolo e che importanza ricoprono, nel tuo lavoro, il linguaggio non verbale e il tono di voce quando ti rapporti all’utente?

Lavorando nell’ambito del domicilio la prima cosa che “arriva” è il colpo d’occhio: la persona ti osserva, in quanto sei comunque un estraneo che entra in casa sua. Perciò lo step più difficile è proprio l’accettazione. A volte ti guardano e ti giudicano anche per come ti muovi.

Il tono di voce è importantissimo. Tuttavia, molto dipende dalla persona che hai di fronte: il saper adattarsi sin da subito a ogni circostanza non è semplice. Anzi, quando mi relaziono a determinate patologie, mi trovo addirittura a neanche poter parlare, poiché in tali casi non servono le parole. Dunque, preziosa via di comunicazione è il linguaggio del corpo, con il quale è molto più difficile esprimersi, ma basta veramente poco. Un abbraccio, una carezza, una stretta di mano o il semplice guardarsi negli occhi è ciò che conta, a prescindere dalla voce.

12) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?

La mia professione non è un comune lavoro e per ciò che mi riguarda è una vera e propria missione, che svolgi perché la senti, perché ti piace. Quando alcuni mi chiedono “come fai?”, rispondo “lo faccio perché mi piace e lo sento”. Alla fine di ogni giornata, oltre alla fatica fisica e mentale, mi porto a casa un bel bagaglio. Viceversa, la consapevolezza di aver dato sollievo a qualcuno fa sentire bene anche me, in quanto sono realizzata. Il portare un sorriso o una semplice parola di conforto non ha prezzo.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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