30° settimana: TEETH/DENTI
Lo vedo lì, accanto alle mie spoglie. Straziato.
Seduto in prima fila accanto ai miei genitori e a mio fratello, stringe la mano di mia madre, quasi a voler assorbire tutta la sua disperazione. A mio padre, invece, tra una preghiera e l’altra, sussurra che farà il possibile per catturare il mio omicida.
Perché, in fondo, io non meritavo di morire così. Nessuno lo merita.
Chiusa nella bara di legno, non posso gridare. Non mi è consentito urlare il suo nome come quello del mio assassino e nemmeno mettere in guardia la mia famiglia di stare lontana da lui, da quell’uomo bugiardamente disperato che siede in prima fila.
Solo il mio corpo martoriato è in grado di farlo. Forse già attraverso il referto che il medico legale sta compilando in contemporanea al mio funerale.
Sì perché mentre ero adagiata sul freddo tavolo delle autopsie, l’anatomopatologo ha colto e annotato ogni cosa che la mia nudità gli ha suggerito. Addirittura, è riuscito a ipotizzare una ricostruzione della mia morte che, dentro di me, sapevo corrispondere al vero.
Pazientemente, esaminando il mio corpo palmo a palmo, ha contato ben quindici coltellate su di me inferte, di cui una, quella al petto, è stata letale. E poi altri sfregi, non certo per uccidermi ma sicuramente la costosa conseguenza di un rifiuto.
L’impronta dei suoi DENTI intorno al mio capezzolo, come fosse la piscia di un cane per segnare il territorio. Territorio che, chiaramente, gli avevo detto non essere il suo. Ma lui non ci stava: o sua o di nessun altro.
Quello che, però, non è mai riuscito a capire è che io sua non lo ero mai stata, e nemmeno di un altro uomo, sia chiaro. Da quando sono nata e sino alla mia morte io sono sempre stata solo e soltanto mia, ospitata nel corpo che ora giace esanime nella bara.