Tatto (Portofino)
La forza dell’acqua mi sbatte contro. M’impatta, mi annienta. Per un attimo mi toglie il respiro; sono in apnea.
Non mi scompongo. Resisto. Proprio come la roccia a picco sul mare, lascio che levighi le mie ferite, permettendole di mutare la mia superficie. Ora, i giocosi schizzi d’acqua sono più dolci, quasi clementi.
Col palmo della mano accarezzo la cresta marina che, via via, si fa sempre più calma. Anch’io ora sono più tranquilla. La schiuma bianca mi accarezza una a una le falangi, ricordandomi che sono viva. Sopravvissuta alle intemperie che mi hanno solo scalfita, non annientata.
Alzo il braccio, come se volessi trattenere i nuvoloni che si stanno allontanando e di cui riesco quasi a percepire l’effimera fattezza. Desidero ancora pioggia. Pioggia che lambisce il mio viso, trasformandosi in tutte quelle lacrime che, a fatica, cerco di trattenere. Pioggia, coraggioso pianto.
Le mie dita, protese verso l’alto, non riescono a raggiungere l’immenso. Si devono accontentare dell’etere. L’orizzonte, con i suoi timidi raggi di sole, è troppo lontano. Mi accascio sulla roccia, quella roccia levigata dalle onde e dal sale. Con l’indice scruto i suoi seni e le sue insenature, testimoni del tempo. Ora siamo intime.
Scopro le sue imperfezioni. Le sue fragilità, tremendamente simili ai miei dolori. Un riverbero di luce le sta accarezzando, delicata cura di ogni ferita. Anch’io voglio essere roccia. Anch’io desidero il sole ad asciugare la mia disperazione.
Mi distendo sul manto sassoso, indecisa se la mia schiena sia vittima di una tortura o fortunata destinataria di un massaggio ristoratore. Chiudo gli occhi, mostrando il viso inerme al mondo. All’universo. Al sole. Anche per me si fa efficace medicina, facendo penetrare la sua forza sino all’anima.
D’improvviso, sento una guancia inumidirsi. No, non può essere pioggia: il cielo è di nuovo azzurro. Lascio scorrere tutte le lacrime, guardandole confondersi col mare. Il sole, caldo sulla pelle, ha finalmente dischiuso il mio spirito.