44° settimana: WEIRDO/STRAMBO
È vero, ho realizzato il mio sogno. Gioco in Serie A; nell’Inter, precisamente. Porto sulle spalle il “numero 9”, i confronti con il mio corrispondente maschile si sprecano.
Sono arrivata dove desideravo, ma che fatica! Oltre ai muscoli delle gambe e agli addominali, ho dovuto sempre allenare la mia tenacia. Tenacia a non mollare, a non ascoltare i pregiudizi di gente retrograda che, sin dai primi calci al pallone, giudicavano STRAMBO questo mio modo di essere, questa mia passione.
Già sul campetto dell’oratorio, vedere una coda di cavallo in mezzo a tutta quella virilità appariva come una nota fuori posto. Un qualcosa di stonato.
E ricordo ancora la prima volta, quando sicura mi presentai sul dischetto del rigore. Fu un po’ come andare sul patibolo, immolarmi. Dalle tribune, nidiate di genitori fin troppo competitivi mi gridavano le peggio cose. Anche mamme e papà dei miei stessi compagni.
Io, solo perché femmina, non potevo essere in grado di tirare dagli undici metri. Se la mia squadra avesse perso, ogni colpa sarebbe stata la mia. E nemmeno quando bucai la rete gli insulti si placarono. Per il sol fatto di aver segnato io dovevo essere per forza lesbica, frocia, un maschiaccio insomma.
Le donne non potevano giocare a calcio ed essere brave, per giunta. Quelle con la D maiuscola dovevano essere aggraziate, magari diventare stimate ballerine.
Ma io non mi arresi. La forza per andare dritta per la mia strada, oltre che i miei genitori, me la diede il mio primo mister. Antonio ha sempre creduto in me, sin da quando bazzicavo i suoi campetti. Era lui che mi accompagnava a ogni mio provino ed è stato sempre lui il primo che ho guardato negli occhi quando l’Inter mi ha presa. Il suo sguardo pieno d’orgoglio.
E ancora oggi, che i campi sterrati sono solo un ricordo, Antonio è un punto fermo nella mia vita: da qualche anno è diventato mio suocero. Ho sposato Daniele, suo figlio.