41° settimana: PLUMP/PAFFUTO
L’orsacchiotto PAFFUTO è lì che mi guarda, adagiato su vecchie coperte. Lo prendo in mano, scrollandogli di dosso anni di polvere.
Così sorrido, tra le lacrime. Sussurro il suo nome: Kira.
Chiudo gli occhi, avvicinandolo al naso. Scrutando ogni angolo di pelo, cerco tracce di disinfettante; qualsiasi cosa che mi possa ricordare quel momento, quando Kira ci teneva compagnia, mentre io e Marco condividevamo lo stesso letto d’ospedale. Entrambi attaccanti alla flebo.
Sono passati diversi lustri, oramai. Mio fratello ed io siamo cresciuti; parte di me dentro di lui.
Nonostante avessi solo sette anni, a detta di mamma e papà, ero l’unico che poteva salvarlo, strapparlo a una morte quasi certa. Non obiettai, nonostante la paura e il peso della responsabilità.
Trascorsi diversi giorni accanto a Marco. Prima e dopo l’operazione. Un poco del mio midollo prelevato dalla schiena, ora, apparteneva a lui, che fortunatamente lo accolse bene. Nessun rigetto.
Inerme lo guardavo mentre, giorno dopo giorno, la vita si rimpossessava di lui, e lui della vita. Per ingannare il tempo, distraendomi dal via vai di infermieri, i quali, pur se con un sorriso, mi ignoravano, cercavo di contare i peli di quel PAFFUTO orsacchiotto. Puntualmente perdevo il conto, costringendomi a tornare daccapo.
Era come scaricare su Kira il bisogno che anch’io avvertivo di appoggiarmi a qualcuno. In fondo, i miei genitori confidavano nei medici; i medici in Marco; Marco in me e io nel morbido peluche. Quasi fossimo tessere di un fragilissimo domino.
Quando entrambi venimmo a casa dall’ospedale, invece che mio fratello, il rigetto lo ebbi io. Iniziai a rifiutare Kira con ogni parte di me. Nonostante, durante il ricovero, mi fossi aggrappato a lui con tutte le mie forze, ora volevo solo dimenticarlo. Dimenticare la personificazione di quegli angosciosi istanti.
Lo presi e lo abbandonai in mansarda, celebrando il suo funerale.
P.S. Nella foto, una torta di Chiara Schenatti.