4° settimana: ANGEL/ANGELO
Pioveva quella notte. Accucciata sotto il lenzuolo, inumidito dalla soffocante afa di fine luglio, sentivo il cielo scaricarsi di ogni particella d’acqua di cui disponeva, quasi fosse incontinente. Tuoni e lampi, in lontananza, squarciavano di tanto in tanto il lieve fruscio del vento che correva fra le chiome rigogliose degli alberi.
Chissà lui dov’è? Chissà se ha trovato riparo?
Quelle due domande mi ribattevano in testa, martellandomi le tempie.
Dovevo fare qualcosa, per lui. Non lo conoscevo, ma già sentivo che gli dovevo tanto, forse tutto. L’istinto.
Volevo andare da lui. O, forse, dovevo; mi stava chiamando. Ma non era ancora l’alba e sotto quella pioggia incessante non potevo fare niente: avrei dovuto aspettare mattina.
Finalmente, il primo raggio stava bucando lo spesso strato di nuvoloni che ancora affollavano il cielo. La scarica d’acqua si era momentaneamente arrestata, raccogliendo tutte le forze per poi sferrare il colpo finale, quello decisivo.
Dovevo agire. Correre da lui e sperare di trovarlo ancora. Vivo.
Ora o mai più.
Mi precipitai, affondando le mie All Stars nel terreno fangoso. Intorno a me solo aria putrida.
Lui dov’è?
Ero certa di averlo visto lì, l’ultima volta.
Ma ora dove si era cacciato? Era ancora vivo o le secchiate di pioggia lo avevano dissolto?
Tesi le orecchie. Niente.
Ci riprovai: non volevo già arrendermi.
Sentii una specie di mugugno, flebile. Lo avvertii più con la pancia che con l’udito.
Mi piegai, infilando la mano sotto una catasta di legno lì vicino.
Lo potevo toccare, finalmente. La salvezza.
“Come si chiama?” mi chiese qualche ora dopo il veterinario, sorridendo.
Aggrottai la fronte. Ma certo, il nome! Non ci avevo ancora pensato, in tutto quel trambusto.
“Come si chiama il suo micetto?”.
“Poker! Lui è Poker!” balbettai.
Non sapevo perché mi era uscito quel nome. L’istinto.
Pioveva quella sera. Adagiata sopra il lenzuolo, sentivo le lacrime bagnarmi le gote ormai smunte; i miei occhi parevano incontinenti.
I singhiozzi, di tanto in tanto, rompevano il silenzio in cui era avvolta la camera.
L’aria era cupa, quasi funesta.
Perché lui non torna? Perché mi aveva lasciata lì, così?
Queste domande mi rompevano l’anima, se ancora me ne era rimasta un briciolo.
Non potevo fare più niente, solo accettare il suo addio. Lasciare andare quel ragazzo, e il suo ricordo.
Ma per chi potevo vivere adesso? Chi sarebbe stata la mia ragione di vita?
Gli occhi, ormai, bruciavano; le lacrime non si volevano arrestare.
Senza nemmeno guardare intorno, sentii la sua presenza. Lui era lì, accanto a me in silenzio.
D’improvviso, percepii il suo tocco. Era stato lieve.
La sua zampina aveva appena sfiorato la mia guancia, accarezzandola dolcemente.
Alzai lo sguardo. Sorrisi.
Ma certo, Poker!
Mio padre mi aveva mandato un ANGELO.