Morbo

15° settimana: PROWL/AGGIRARSI

Non saprei individuare l’esatto momento in cui decisi che, per tutta la vita, avrei fatto l’infermiera. Forse, semplicemente, perché non c’è mai stato un vero e proprio istante, né una scelta consapevole.

Credo di essere nata con questa missione. Sì, penso proprio di sì.

Perché di una missione si tratta.

Ogni mattina, da quando avevo ventinove anni, mi sveglio contenta; felice di andare al lavoro. E poi, diciamocela tutta, non è che vado proprio in un ambiente allegro… anzi. L’odore di disinfettante mischiato al putrido dei liquidi corporei mi ricorda costantemente il bilico fra la vita e la morte.

Sì, perché prestare servizio in Pronto Soccorso non è poi così facile.

Certo, questa professione riserva sempre delle soddisfazioni impareggiabili. Come quando un piccolo paziente ti tende la sua manina durante un’iniezione; oppure un’anziana ti sussurra che hai la stessa voce di sua figlia. E allora tutto acquista un senso.

Ovviamente, spesso, ci sono anche dei “contro”. Situazioni in cui non vorresti mai trovarti ed emozioni che mai desidereresti vivere.

Come oggi, ad esempio. E, purtroppo, non è la prima volta che mi capita.

Ero appena entrata in turno; erano le 6.06.

La situazione era tranquilla: solo qualche letto occupato nell’area triage.

Vengo chiamata dalla mia collega receptionist, la quale affida alle mie cure un ragazzo poco più che adolescente.

«Deve fare una lastra al setto nasale», mi comunica lei.

Sorrido al timido paziente e gli faccio strada. Nel mentre attendiamo il medico, gli faccio le consuete domande circa la dinamica dell’incidente: devo compilare il referto da mandare, eventualmente, in Procura.

Negli occhi di Luca vedo lo smarrimento. Vuole dirmi qualcosa ma ha vergogna. Intuisco.

Faccio sfoggio del mio lato materno. Lo convinco a parlare, a una condizione: i suoi non avrebbero dovuto sapere niente.

Il naso gliel’avevano rotto.

Fuori da un locale era stato circondato da un branco. L’avevano deriso, umiliato, chiamandolo “culattone” e “frocio”.

Uno di loro si era anche calato le braghe, chiedendogli un pompino.

Gli altri avevano riso e poi qualcuno lo aveva colpito, dritto al naso.

Dopo aver ascoltato, silenziosamente, la sua storia, ho compilato il referto, gli ho sfiorato la spalla in segno di comprensione e l’ho lasciato alle cure mediche. Ho continuato il mio turno, con una sola domanda in testa: com’era possibile che, ancora nel 2023, continuasse ad AGGIRARSI tra la gente il subdolo morbo dell’odio?

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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