IL MEDICO-NEFROLOGO RISPONDE

Dopo la pausa estiva, torna finalmente la rubrica “Parola all’esperto“. In questa interessante puntata, la dottoressa Micaela Anna Casiraghi, specializzanda in nefrologia, ci illustrerà l’importanza del dialogo fra medico e paziente.

Rene rappresentato a mano, connubio tra scienza e arte, Davide Racchi

1) Cosa ti ha spinta a intraprendere il percorso di medico?

La Salute per me rappresenta il presupposto indispensabile affinché ognuno possa affrontare la propria esistenza, nelle gioie e nelle sfide. Per questo ho scelto di fare il medico, per poter aiutare il più possibile chi mi circonda a mantenere, appropriarsi o raggiungere quel presupposto indispensabile. In alcune occasioni la salute si ristabilisce, a volte non completamente ma, anche quando in parte, è comunque un grande traguardo. La speranza è che, in futuro, attraverso la Ricerca, ci si possa avvicinare ancora di più ad un successo completo.

2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio medico-sanitario?

Devo dire di no, l’ho appreso facilmente e con piacere. Avere un vocabolario specifico aiuta a rendere un discorso universalmente comprensibile e soprattutto riassuntivo. Tuttavia, come medici dobbiamo sempre ricordarci di affiancarlo ad (non sostituirlo con) una versione più comprensibile per i nostri pazienti, accertandoci della completa comprensione.

3) Qual è, a tuo parere, la “missione” del medico?

Parto dal presupposto che, a parer mio, la figura del medico dovrebbe essere quella di un individuo in continua ‘ricerca’: cercare una migliore cura, un migliore compromesso per il paziente, un miglior metodo per comunicare.

Ma, in effetti, siamo figure ricercate per rassicurare. Anzi può accadere che ci ritroviamo a dover rassicurare i pazienti anche in frangenti molto complessi e delicati. Ed in tutto questo dobbiamo rimanere razionalmente scettici.

Quindi la nostra missione ritengo sia quella di trovare un equilibrio tra rispondere ai bisogni del paziente e ricercare risposte migliori, riconoscendo che a volte anche la Scienza può essere fallace, ma ha il continuo obiettivo di migliorarsi, e noi con lei.

4) Veniamo all’importanza delle parole nella tua professione. Innanzitutto, tu lavori in ospedale, come specializzanda in nefrologia. Di cosa si occupa il nefrologo?

Il termine nefrologia è in effetti piuttosto curioso in quanto, a differenza delle altre branche della medicina specialistica, come cardiologia che si occupa del cuore o pneumologia che si occupa dei polmoni, rimanda meno intuitivamente a quello che è il nostro pane quotidiano.

“Nefrologia” deriva dalla parola “nefrone“, che rappresenta l’unità fondamentale costituente il rene. In altre parole in ogni rene ci sono tanti piccoli nefroni che permettono loro di svolgere le funzioni fondamentali per cui sono stati designati. Anzitutto si occupano dell’eliminazione dei liquidi in eccesso e dei prodotti di scarto (ad esempio l’urea), nonché di mantenere l’equilibrio di diverse sostanze presenti nel sangue, come le proteine (reni malati possono farci perdere troppe proteine nelle urine, e questo a lungo andare fa peggiorare la salute stessa dei reni, che potrebbero poi non funzionare più; non solo, tutto il nostro organismo ne risulterebbe danneggiato) e gli elettroliti quali sodio, potassio (una loro alterata concentrazione nel sangue è molto pericolosa). I reni hanno anche un ruolo importantissimo nel metabolismo delle ossa e dei globuli rossi.

Utilizzo il termine reni, perché ognuno di noi ne possiede due, anche se alcune persone in effetti nascono con un solo rene, condizione assolutamente compatibile con la vita, ma che deve essere attenzionata da un Nefrologo. Ci occupiamo infatti anche di tutte quelle che sono le patologie renali rare o malformative presenti sin dalla nascita.

Infine, quando i reni non funzionano più, ed entrano in gioco meccanismi adibiti alla sostituzione della funzione renale (la dialisi) od interventi chirurgici che esitano con l’impianto di un nuovo rene (trapianto renale), noi rappresentiamo il punto di riferimento per l’avvio di questi percorsi terapeutici. La dialisi può essere anche intrapresa per brevi periodi, per esempio in situazioni di intossicazioni gravi da farmaci o nei soggetti con gravi infezioni o danno cardiaco critico.

Il nostro obiettivo primario è comunque quello di individuare la presenza di un danno renale per poterlo arginare quanto prima, impedendo che finisca per danneggiare anche tutto l’organismo; parimenti abbiamo il ruolo di escludere, di fronte ad una malattia primariamente non renale, ma che interessa altri organi, il coinvolgimento dei reni.

5) Solitamente, soprattutto in ospedale, il medico lavora in equipe (o comunque in collaborazione con colleghi, infermieri, OSS, ecc…). Quanto è importante, al fine dell’assistenza al paziente, il dialogo e il confronto tra il personale sanitario ?

È ovviamente fondamentale e, penso che tutte le diverse figure si impegnino al meglio in questo senso. Devo ammettere che a volte il tassello che manca è proprio la comunicazione tra medico-medico quando questa è mediata dal paziente. Spesso i pazienti si presentano senza esami o senza sapere il motivo della visita. Colgo l’occasione per ricordare di portare sempre con sé la propria documentazione sanitaria, a questo proposito!

6) Nella tua professione, quanto conta e che peso ha la diagnosi?

Diagnosi è un termine al contempo temuto e ricercato. Da un lato abbiamo pazienti sconfortati in quanto si trovano ad affrontare problematiche a cui non riescono a dare un nome, e consequenzialmente una definizione, una terapia, una prognosi.  Dall’altro a volte rendersi conto di soffrire di una certa patologia, quindi ricevere una diagnosi, è altrettanto difficile, perché come ho detto prima, insieme alla diagnosi spesso si accompagna una certa terapia ma anche una certa prognosi, che non sempre sono facili da accettare.

In realtà, ormai da un po’ di anni, soprattutto nel nostro settore, sta avvenendo una sorta di rivoluzione in questo senso. Ovvero piuttosto che fossilizzarci su una diagnosi, cerchiamo di descrivere e comprendere il pattern preciso e specifico del quadro patologico di ogni paziente (che di fatto a volte non è incasellabile nei criteri diagnostici di una specifica malattia) e quindi curarlo di conseguenza. Diciamo che è una sorta di ritorno alle origini, ad una terapia personalizzata per il paziente, ma con cognizione di causa. Negli anni passati si è tentato molto attraverso linee guida di uniformare le diagnosi e gli approcci terapeutici. Ad oggi invece vi è un ritorno alla personalizzazione, di cui io per prima sono curiosa di vedere i risultati.

7) Utilizzi particolari tecniche comunicative per interfacciarti con i pazienti? Queste tecniche o approcci vi vengono insegnati o appresi con la pratica?

Perlomeno in Italia, si tratta quasi esclusivamente di apprendimento sul campo e, vista la sensibilità delle informazioni che trasmettiamo al paziente, sarebbe forse utile educare i medici in modo più strutturato.

Per quanto mi riguarda reputo fondamentali la corretta comunicazione orale e il supporto di una buona comunicazione gestuale. È importante utilizzare la terminologia medica corretta, accertandosi però che venga compresa dal paziente e, sempre e comunque, renderla comprensibile con perifrasi esplicative. Altrettanto importante è ascoltare il paziente e capire il significato che viene conferito a certi termini, in quanto a volte è in effetti diverso da quello che noi potremmo immaginarci.      

8) Ci sono state delle conversazioni con pazienti che hanno cambiato il tuo modo di vivere la vita o la tua professione?

Mi confronto spesso con una carissima amica, nonché collega, che lavora come anestesista-rianimatore in ospedale. Entrambe, e ben più di una volta, ci siamo ritrovate a condividere conversazioni avute con pazienti che vertevano non tanto sulla quantità di tempo che ognuno di noi ha a disposizione in questa vita, ma sulla sua qualità. Non quanti giorni ho, ma come li spendo, non quanto mi manca, ma come trascorrere questo tempo, indipendentemente da quanto sia. Questo rappresenta per me un costante motivo di riflessione a cui dovremmo sottoporci tutti.

9) Secondo la tua esperienza, e per come intendi tu la tua professione, pur non sostituendosi ai farmaci e agli altri trattamenti medici, le parole, rivolte a un paziente, possono avere effetti curativi o comunque benefici?

Certamente può essere così. Le parole, così come i silenzi. Per questo è fondamentale cercare di capire con che tipo di persona stiamo interagendo, al fine di riuscire a dare il meglio per il suo benessere. Questo presuppone del tempo. Tempo per capire il paziente e per pensare e poi rivolgere le parole più appropriate.

Devo dire, sinceramente, tempo che sempre meno ci viene concesso, richiedendoci di fare visite specialistiche in venti minuti, giri visita in ospedale sempre più veloci, a scapito dei pazienti. Ed è per questo che spesso, tra una visita ambulatoriale e l’altra, ci ritroviamo a fare ritardo. Perché non vogliamo rinunciare all’importanza della comunicazione nei confronti di chi si trova in visita medica per essere ascoltato.

10) Che ruolo e che importanza ricoprono, nel tuo lavoro, il linguaggio non verbale e il tono di voce quando ti rapporti al paziente?

Anche la gestualità fa parte dell’essere comunicativo. Non tutti sono predisposti ad un suo uso e sicuramente è meno fondamentale di una buona capacità comunicativa orale. Pertanto qualora un medico fosse naturalmente portato ad essa e avesse capacità di capire quando è opportuna, penso sarebbe un ulteriore vantaggio. Ma una pacca sulla spalla affettata e data senza vero trasporto non è fondamentale, anzi potrebbe persino essere inappropriata. Sarebbe meglio allora concentrarsi su una buona comunicazione orale, utilizzando per quanto possibile un tono calmo e pacato che trasmette sicuramente sicurezza.

11) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?

Vorrei aggiungere solo una cosa, che concerne il nostro ruolo, in effetti un po’ intrinseco, di ‘rassicuratori’. Penso che dovremmo smettere di usare parole come ‘mai’ oppure ‘sempre’ con leggerezza. O meglio dovremmo usarle, solo dopo aver appurato che i pazienti abbiano compreso che, per quanto quello che noi riferiamo loro sia provato, la Scienza rappresenta l’insieme di tante conoscenze che si sono apprese negli anni e che si stanno continuando ad apprendere, ed è quindi in continuo mutamento. Non si tratterebbe di voler essere relativisti, ma onesti verso sé stessi ed i pazienti, e ritengo che ogni volta che sia possibile dovremmo esserlo.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.