L’AUDIOMETRISTA RISPONDE

Per la rubrica “Parola all’esperto“, un’interessante intervista al Dott. Marco Pozzi, Tecnico Audiometrista, nonché mio caro amico. Grazie al suo intervento, ci addentreremo nel magico processo della captazione e rielaborazione dei suoni e, quindi, delle parole.

1) Cosa ti ha spinto a intraprendere il percorso di Tecnico Audiometrista?

Mi son ritrovato a fare questa professione molto per caso. Alle superiori ho fatto il liceo artistico e finito quello mi è sembrato naturale proseguire gli studi sul lato artistico. Non volendo fare l’Accademia di Belle Arti ho optato per un corso di studi in Design ma mi sono accorto che non era la mia strada. Cosa fare quindi nella vita? Con una consapevolezza maggiore di quella che si possiede alla fine della scuola superiore ho intrapreso un’attenta analisi dei possibili percorsi. Ne ho vagliati diversi ma alla fine la scelta è ricaduta sulle Professioni Sanitarie. Da una parte l’idea di aiutare il paziente mi piaceva ma per mio essere non volevo qualcosa con carattere troppo assistenziale. Quindi la scelta è ricaduta su una professione sanitaria tecnica.

2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio tecnico-medico?

Come dicevo sono arrivato all’audiometria dopo un percorso artistico, quindi non ero abituato al linguaggio medico. Fino ad allora le uniche esperienze erano state legate alle ore di biologia e chimica a scuola e quelle passate a guardare serie tv. Però devo dire che non ho fatto fatica ad abituarmi al linguaggio medico. Certo le lezioni partono subito con un linguaggio tecnico già dal primo anno, ma se si studia e si seguono le lezioni (che tra l’altro sono obbligatorie) si riesce bene ad imparare ad utilizzare un linguaggio corretto. Poi la parte più consistente la si impara facendo tirocinio.

3) Qual è la “missione” dell’audiometrista?

Il Tecnico Audiometrista è quella figura sanitaria che si occupa della prevenzione, diagnosi e riabilitazione di tutto ciò che concerne l’udito e l’equilibrio in tutte le fasce d’età, dal paziente pediatrico all’anziano.

4) Veniamo all’importanza delle parole nella professione di audiometrista. Che ruolo e che funzioni svolge il linguaggio, parlato, nel tuo lavoro?

La comunicazione è un elemento essenziale di ogni professione sanitaria, la relazione con il paziente è costante durante tutto il giorno. Ovviamente la relazione professionista/paziente è differente a seconda della professione sanitaria che si svolge.

Per l’audiometrista il linguaggio parlato ha sicuramente una grande rilevanza per la spiegazione dei singoli esami. Essendo una professione tecnica mirata all’esecuzione di esami strumentali è essenziale esporre bene al paziente cosa si sta andando. Inoltre, occorre spiegare i compiti che il paziente deve svolgere durante l’esame.6

Vi è poi una funzione esplicativa, non tanto dei risultati dei test che è di competenza medica, ma di quello che l’esame va a studiare o dei vari percorsi. Pensiamo ad esempio al reparto pediatrico. I genitori sono in apprensione per la situazione e temono gli esiti degli esami ma questa loro tensione viene percepita dal bambino e inficia l’esame stesso. Parlare con i genitori, spiegargli cosa si sta facendo allenta la tensione e rende il lavoro più semplice.

5) Come funziona il processo di rielaborazione del suono? Qual è l’area cerebrale interessata?

È un processo molto complesso. Il primo passaggio avviene a livello dell’orecchio interno dove l’onda sonora si trasforma in un segnale elettrico che può viaggiare nelle vie nervose. Raggiunte le vie nervose il segnale viene trasportato dall’orecchio fino alla corteccia uditiva che si trova negli emisferi temporali dell’encefalo. Sulla via uditiva ci sono diversi nuclei (composti dai corpi cellulari dei neuroni) che permettono una rielaborazione del segnale e un confronto tra il segnale che proviene dall’orecchio destro e da quello sinistro. Lungo la via si verifica un continuo processamento del segnale. Importante segnalare che andando verso la corteccia ho un aumento del numero di neuroni (di nucleo in nucleo).

In corteccia ogni neurone si eccita per la ricezione di un suono. Ho circa 10.000.000 di neuroni e quindi 10.000.000 di tipi di suoni. Ma nel nucleo cocleare ho solo 88.000 neuroni e quindi ogni neurone è deputato all’ascolto di più di un suono. Ad esempio nel nucleo cocleare ho un neurone che capisce che sta sentendo la nota do. In corteccia invece non solo capisco che è un do ma distinguo anche lo strumento che lo sta emettendo. La via centrale mi porta quindi ad una informazione estremamente specifica.

La via centrale non è composta solo dalla via afferente, quindi dalle fibre nervose che portano il segnale dall’orecchio alla corteccia e di cui abbiamo parlato fino ad adesso, ma esiste anche una via efferente che porta il segnale nella direzione opposta. Il sistema efferente parte dalla corteccia e serve per fare attenzione a determinati suoni e ad eliminarne altri. Permette l’amplificazione di alcuni suoni e la non amplificazione di altri; ad esempio ci permette di riconoscere il parlato nel rumore.

L’orecchio non è un registratore ma elabora il segnale per dare una determinata percezione. Seleziona cosa è importante ascoltare.

6) Quali sono gli esami clinici che svolgi? A tal proposito, come si utilizzano i suoni e le parole?

Gli esami svolti sono molti e possiamo classificarli in vario modo: in base all’età del paziente, in  base al livello di approfondimento diagnostico richiesto e anche in relazione alla soggettività o oggettività, quindi in base alla necessità o meno di collaborazione da parte del paziente. I primi test che vengono eseguiti su un paziente sono l’Audiometria Tonale Liminare e l’Audiometria Vocale. Essi, rispettivamente, ci danno informazioni su quanto e come sente il paziente.

Nell’audiometria tonale vengono somministrati al paziente una batteria di suoni, parlando tecnicamente si utilizzano toni puri, e si chiede al paziente di indicare tramite alzata di mano o pressione di un pulsante quando sta sentendo un suono. Il tono somministrato parte da un volume praticamente inesistente e si alza piano piano fino a quando il paziente non risponde. In questo modo siamo in grado di identificare la soglia uditiva, ossia la minima intensità sonora che evoca una risposta uditiva.

Nell’esame vocale vengono invece somministrate al paziente delle liste di parole e gli si chiede di ripetere quelle che vengono sentite. Vengono fatte sentire diverse liste a vari volumi in modo da valutare la comprensione del paziente. Le liste sono formate da parole bisillabiche della lingua italiana. Non sono scelte casualmente ma studiate in modo da bilanciare i fonemi (ossia i suoni prodotti in relazione alle singole lettere) presenti nella lista.

Importante è anche la valutazione della comprensione vocale nel rumore. Infatti nella vita quotidiana non siamo mai in una condizione di perfetto silenzio e in situazione di rumore la comprensione risulta essere più difficile.

Questi sono solo alcuni dei test che l’audiometrista esegue, sono sicuramente i primi che vengono eseguiti ma forniscono già un elevato numero di informazioni. Altri test sono i potenziali evocati uditivi che studiano le risposte elettrofisiologiche di tutta la via uditiva, l’audiometria infantile, l’audiometria protesica e tutta la batteria di test per la valutazione dell’equilibrio.

7) Quali sono, in base alla tua esperienza, le conseguenze sociali e psicologiche del “non sentire” e quindi del “non comunicare”?

Tutti abbiamo provato almeno una volta a muoverci ad occhi chiusi e subito ci siamo accorti di quanto siamo dipendenti dalla vista. Tuttavia, pochi si rendono effettivamente conto di quanto dipendiamo dall’udito. L’udito è quel senso che ci accompagna dal terzo-sesto mese di gravidanza fino alla morte, lavorando ininterrottamente ventiquattro ore su ventiquattro per tutti i giorni della nostra vita. Per rispondere bene alla domanda dobbiamo prendere in considerazione due diverse condizioni: quella della persona che nasce ipoacusica e quella di chi perde l’udito.

Chi nasce con un’ipoacusia importante, non solo non sente ma non sarà neppure in grado di sviluppare il linguaggio. Storicamente, il termine “sordomuto” descriveva questa situazione. In realtà questo è un termine erroneo in quando la persona non era muta e non aveva nessun problema all’apparato fonatorio, semplicemente non sentendo non si innescava quel processo fisiologico di imitazione delle voci dei genitori e di chi sta attorno al bambino che porta allo sviluppo della parola e del linguaggio.

La condizione di chi invece perde l’udito è molto differente. Queste persone sono in grado di comunicare ma progressivamente diminuiscono sempre più le interazioni sociali. Ciò è dovuto a due fattori: da un lato alla fatica e concentrazione che il soggetto deve mettere in atto per capire il discorso a cui sta partecipando, dall’altro lato invece si sviluppa un forte imbarazzo e disagio per dover chiedere di ripetere e di alzare la voce portando quindi all’isolamento sociale.

Un altro elemento che non viene preso in considerazione è la continua stimolazione cerebrale ad opera dell’udito. Come detto prima stiamo sempre sentendo qualcosa, anche mentre dormiamo le orecchie sentono e il cervello rielabora, andando a perdere l’udito questa funzione viene meno. Vi son studi che mostrano come la perdita uditiva sia un fattore spesso determinante nello sviluppo della demenza senile.

Da ultimo voglio sottolineare un aspetto importante. Molti pazienti aspettano molto, spesso troppo, prima di fare un controllo dell’udito e pensare ad un apparecchio acustico. Sicuramente un ruolo importante in questa attesa lo ha lo stigma sociale che ancora oggi accompagna l’ipoacusia e gli apparecchi acustici. Mentre è interiorizzato mettere gli occhiali se non si vede bene, lo stesso non avviene in campo uditivo. Questo però porta ad un problema a cui il paziente difficilmente pensa.

Il cervello umano è plastico, ossia ha la capacità di riassegnare funzioni ad aree inutilizzate. Se per anni l’aria uditiva svolge scarsa attività poco può capitare che aree vicine si allarghino andando a cambiare la funzione di quella specifica area cerebrale. Questo di conseguenza comporta una diminuzione delle aree uditive quindi una maggiore difficoltà ad elaborare il suono. Capita spesso, purtroppo, che pazienti aspettino anche più di un decennio per mettere un apparecchio acustico, e se in questi anni il cervello ha rallentato il ritmo di lavoro e di comprensione, la ripresa grazie all’apparecchio sarà lunga e difficile.

8) Che tecniche usi per comunicare con soggetti ipoacusici? Quanto è importante, per tali persone, la comunicazione scritta?’

“Rallentare”, “scandire le parole” e “alzare leggermente la voce” sono le parole chiave da tenere a mente quando ci si interfaccia con un soggetto ipoacusico.

In questi soggetti la comprensione richiede uno sforzo maggiore ed è quindi importante utilizzare frasi corte e semplici, selezionando le parole anche in relazione a quelle più facilmente conosciute dal paziente, eliminando tecnicismi e linguaggio articolato. Urlare è invece controproducente, non solo rende più difficile la lettura labiale, andando quindi a togliere questo supporto, ma in una buona fetta delle ipoacusie, tra cui quella dovuta all’invecchiamento (probabilmente l’ipoacusia con cui è più facile imbattersi per un non addetto ai lavori), l’aumento di volume comporta fastidio e una diminuzione della comprensione verbale.

La comunicazione scritta può sicuramente aiutare, tuttavia sono poche le volte in cui la devo utilizzare in quanto spesso i pazienti negli anni imparano ad affiancare la loro percezione uditiva con la lettura labiale.

9) In che modo, oggi, la tecnologia è al “servizio” delle scienze audiometriche?

Parlando espressamente di audiometria direi che la tecnologia ci aiuta migliorando la precisione e le possibilità tecniche dei macchinari su cui lavoriamo. Ma visto la sede di questa intervista, vorrei allargare il discorso all’audiologia andando così a comprendere anche diagnosi, terapie, chirurgie, apparecchi acustici e impianti cocleari. Per ognuno di questi argomenti si potrebbe parlare per ore, ma vorrei soffermarmi su un paio di elementi.

Gli apparecchi acustici e l’impianto cocleare sono due famiglie di dispositivi audioprotesici che aiutano il soggetto ipoacusico. L’apparecchio acustico è sicuramente quello più conosciuto e che vediamo spesso anche pubblicizzato in televisione da una nota marca. Il suo principio di funzionamento è quello di prendere il suono ed elaborarlo andandolo ad amplificare in relazione alla condizione specifica del singolo orecchio a cui è applicato. Il suono amplificato viene riprodotto direttamente all’interno del condotto uditivo e da lì raggiunge le strutture anatomiche dell’orecchio medio ed interno. La percezione uditiva resta comunque acustica. Questo comporta ovviamente dei limiti in quanto l’orecchio del paziente qualcosa deve sentire.

E allora per tutte quelle persone che non sentono nulla? In quei casi si può utilizzare l’impianto cocleare. Come suggerisce il nome, questo dispositivo si impianta, mediante un processo chirurgico, all’interno della coclea (quindi della chiocciola). In questo modo si sorpassano tutte le strutture anatomiche periferiche andando a fornire direttamente una stimolazione elettrica al nervo uditivo.

Sia per gli apparecchi acustici che per gli impianti cocleari lo sviluppo della tecnologia è un elemento centrale, senza il quale non avremmo a disposizione i dispositivi stessi. Il progredire dalle scienze e delle applicazioni tecnologiche ha permesso da un lato di ridurre le dimensioni dei dispositivi mantenendo una potenza ottimale e dall’altro di migliorare la rielaborazione del suono. Senza entrare troppo nel dettaglio i primi apparecchi avevano la possibilità di solo due/tre leve di regolazioni oggi arrivano anche a 36. Inoltre oggi l’apparecchio è in grado di riconoscere la situazione uditiva in cui si trova (silenzio, poco rumore, molto rumore, televisione, musica…) e modificare in automatico la propria regolazione per migliorare la comprensione in quell’ambiente.

10) A volte il suono può, tuttavia, influire negativamente sulla qualità della vita, come nel caso dell’acufene. In cosa consiste tale patologia? Come si tratta?

L’acufene si definisce come una percezione sonora in assenza di stimolazione sonora. La prevalenza dell’acufene è stimata tra il 20 e il 30 % nella popolazione generale, con un aumento nella popolazione over 65. La genesi dell’acufene è complessa e non del tutto chiara: coinvolge non solo il sistema uditivo periferico (orecchio esterno, medio e interno) ma anche le vie uditive centrali e le aree cerebrali destinate all’elaborazione delle emozioni e dell’attenzione.

Non tutte le persone che soffrono di acufene sono disturbate nelle loro attività quotidiane. Ciò non dipende tuttavia dall’intensità dell’acufene stesso. Infatti, gli studi hanno rilevato che nel 66% dei casi l’intensità è uguale o inferiore a 10 dB (per dare un’indicazione di paragone il frusciare delle foglie produce un suono di circa 35 dB). La realtà è che ogni persona reagisce in modo differente alla percezione dell’acufene e quindi il fastidio e la disabilità che ne risulta son strettamente legate a come il paziente vive il sintomo; troviamo quindi soggetti con acufeni più forti che non hanno grandi fastidi e persone con acufeni di bassa intensità che ne sono estremamente invalidate.

A livello clinico è importante inquadrare il paziente con un’accurata anamnesi, dei questionari che valutano la disabilità derivata dall’acufene e una batteria di esami audiometrici.

La terapia è estremamente varia e complicata. Ad oggi non esistono farmaci specifici e scientificamente provati per il trattamento dall’acufene. Detto ciò è anche vero che numerosi farmaci ben diversi tra loro per natura, meccanismo d’azione ed indicazione, sono oggi variamente utilizzati nel trattamento del paziente con acufene. Anche diversi integratori possono dare beneficio al paziente. In alcuni casi dove la causa dell’acufene è meccanica (articolare o vascolare) si può intervenire anche con manipolazioni della mandibola o chirurgicamente (in caso di conflitto neurovascolare evidenziato dalla diagnostica per immagini, resta comunque una soluzione estremamente poco utilizzata).

La terapia sicuramente più utilizzata è la Tinnitus Retraining Therapy che si basa sull’assuefazione allo stimolo-acufene. Si tenta di agire sul sistema limbico e simpatico in modo da disinnescare lo stato di ansia e di emozioni negative correlati all’acufene. L’obbiettivo è quello di far cambiare logica al nostro cervello, cioè di arrivare a considerare l’acufene come un suono privo di significato di allerta cosicché il nostro cervello lo ignori. Questo metodo affianca un counceling psicologico all’utilizzo di generatori personalizzati di suoni che erogano un suono emotivamente neutro di pari intensità in modo che l’acufene venga spogliato dal suo significato d’ansia e di allarme.

11) Il linguaggio verbale, e più in generale il suono, hanno delle correlazioni con il linguaggio corporeo e quindi non verbale?

Nella comunicazione interpersonale son sempre compresenti la comunicazione verbale e quella non verbale, anche se a seconda degli argomenti trattati e del tipo di relazione tra gli interlocutori la comunicazione non verbale può acquisire più o meno rilevanza rispetto ai messaggi verbali. Secondo uno studio del 1972 effettuato da Albert Mehrabian presso la UCLA in una normale conversazione viene utilizzato al 7% il verbale, al 38% il paraverbale (ossia tutte quelle caratteristiche extraverbali proprie del linguaggio) e al 55% in non verbale.

La comunicazione verbale si è sviluppata nella specie umana ed è tipica dell’Homo Sapiens mentre la comunicazione non verbale ha un’origine ben più antica e connessa alle emozioni. Di conseguenza la comunicazione non verbale a volte può sottrarsi al controllo della consapevolezza e dell’intenzionalità, lasciando trapelare motivazioni e stati d’animo non presenti nel linguaggio verbale.

12) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?

Non avrei altro da aggiungere, direi soltanto che è una professione estremamente interessante e tutta da scoprire che permette di spaziare molto nei vari campi audiologici. Nell’intervista ho parlato esclusivamente di quello che riguarda suoni e parole tralasciando tutto quello che riguarda lo studio e la valutazione  dell’equilibrio. È una professione purtroppo poco conosciuta, ed è un peccato, perché può dare molte soddisfazioni.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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