Tatto (Praga)
Una lieve scossa mi fa vibrare, ad ogni passo aumentando d’intensità. Forse un terremoto; forse la Terra sta aprendosi in una voragine, scoprendosi nuda. Cerco contatto con i piedi. È solo un pavimento sconnesso, scosceso. Tremante testimone dell’inesorabile trascorrere del tempo.
D’improvviso, sento pungere il naso. Lo tocco. È bagnato. Non ho nemmeno bisogno di rivolgermi al Cielo che già capisco cosa sta per succedere. Una miriade di aghi acquosi mi pizzica la pelle. Saranno a milioni; probabilmente miliardi.
Ma non c’era il Sole, fino a poco fa?
Schiaccio il mio corpo contro la parete di un enorme edificio, cercando riparo. Le mie dita sfiorano dunque la superficie del muro levigata dagli anni; non trovo un appiglio. In quell’ammasso di lisci mattoni sento la Storia accarezzarmi le mani. La Storia di una fiera città che ha resistito a popoli stranieri, respingendoli poi con ferma eleganza.
In un attimo la parete torna a farsi calda. Di nuovo è uscito. Il Sole. Sulla pelle già mi manca il ticchettio della pioggia. Non dubito. Tornerà.
Riprendo il mio cammino, proseguendo giù dalla rocca. Le mie gambe riprendono così a vibrare. In città, un nuovo incontro con l’acqua, questa volta sotto parvenza di fiume. Il Moldava si trascina incurante dei suo ammiratori.
Attraverso la piazza, trovando quindi ristoro in quel che mi sembra un giardino. La mano induce sulla superficie graffiante di quella che in apparenza ricorda una semplice pietra. Mi lascio trasportare dall’infinito saliscendi. Presto attenzione: sono lapidi. Non decine, né centinaia. Oltre dodicimila, per la precisione.
Così, una sensazione di nausea mi stringe lo stomaco. I miei piedi stanno solcando un lembo di terra che si è fatta madre di corpi sconosciuti. Un corpo comune, esito di una vergogna unitaria.
Esco. Raggiungo di nuovo la piazza, elemosinando una boccata d’aria. Torno a sfiorare i muri levigati degli edifici, i quali mi ricordano che la Storia va avanti. Comunque.