Per la rubrica “Parola all’esperto“, un’emozionante intervista a Marianna, da anni infermiera presso reparti terminali. L’esperta ci spiegherà il ruolo e l’importanza che rivestono le parole nell’ambito del percorso di accompagnamento del paziente terminale.
1) Cosa ti ha spinto a intraprendere il percorso infermieristico?
Sono infermiera da quasi quarant’anni e mi ritengo fortunata per aver avuto la possibilità di scegliere e svolgere una professione che sento mia, in quanto mi appartiene il fatto di voler essere un utile aiuto per chi si trova in un momento difficile per malattia o altri eventi che necessitano di assistenza e supporto umano. Le persone, in questi momenti, sono fragili ed hanno bisogno di sentire che possono affidarsi a qualcuno che li potrà aiutare e supportare sia dal punto di vista clinico-assistenziale che emotivo.
Questo è ciò che contraddistingue la professione infermieristica: una buona preparazione e conoscenza affinché le cure prestate possano essere adeguate e sicure. Inoltre, è fondamentale prestare particolare attenzione anche all’aspetto umano fatto di timori, paure e bisogni di chiarezza e fiducia .
Spesso noi infermieri siamo le figure più intimamente vicine ai pazienti, i quali molte volte non osano chiedere ai medici chiarimenti. Allora ecco che il loro sguardo incontra il nostro, in attesa della parola in più, del chiarimento o della rassicurazione. A volte, il loro bisogno non è quello di fare domande ma di piangere o lasciarsi andare….
Ecco, tutto questo racchiude il mondo cui tanti anni fa ho deciso di far parte.
2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio tecnico-medico?
Penso che la preparazione teorica sia importantissima. La conoscenza e la condivisione di un linguaggio comune, fatto anche di termini medico-tecnici, se non conosciuto non ci permetterebbe di poter lavorare bene in equipe per il bene del paziente. Non posso operare su un qualcosa sconosciuto in parte: è impossibile, rischierei di non dare un’assistenza adeguata e ciò non deve avvenire.
3) Qual è la “missione” dell’infermiera (o infermiere)?
Non sono molto d’accordo sull’utilizzo del termine “missione”.
Essere infermiera non è una missione ma una professione che comporta preparazione, aggiornamento e crescita continui. Tutto questo viene fatto mantenendo comunque una propria vita privata.
Perciò, preferisco ritenere l’infermiere un professionista che, in equipe con altre figure, si prefigge lo scopo di promuovere e salvaguardare la salute in tutti i suoi ambiti, e di concorrere alla messa in atto di tutte le procedure clinico-assistenziali e tecniche attraverso l’analisi di metodologie appropriate e validate.
4) Veniamo all’importanza delle parole nella professione infermieristica. Che ruolo e che funzioni svolge il linguaggio, parlato, nel tuo lavoro?
Il linguaggio e la comunicazione sono il tramite attraverso il quale ci approcciamo al paziente. Sono, perciò, un aspetto basilare che ci distingue da un semplice “erogatore di assistenza” inanimato .
La mancanza di comunicazione o una comunicazione poco chiara, superficiale e distaccata possono innescare nel paziente stati di ansia, di paura e frustrazione. Insomma, possono farlo sentire solo o ignorato in quanto persona.
5) Voglio, in particolare, concentrarmi sulla tua lunga esperienza come infermiera nei reparti terminali, la cui missione è quella di garantire “Dignità alla fine della Vita”. In che modo, con riferimento a malati terminali, si conciliano le parole “Dignità” e “Vita”?
La dignità del malato è un concetto che tiene presente la centralità del paziente, soprattutto quando si trova in una situazione di terminalità.
Non esiste un modo assoluto ed unico per dare alla persona malata l’assistenza e le cure. Esiste, invece, “La persona”, con la sua unicità e i suoi bisogni, per cui tutto deve essere personalizzato tenendo in considerazione le caratteristiche, la religione, il suo modo di essere. Dunque, le terapie sono standard, ma la cura e l’assistenza devono essere le “sue”, non “le nostre”.
Il messaggio deve essere che noi siamo lì per lui in quanto tale. La vita è “qui e ora”. Finché c’è la vita c’è ancora molto da fare, fino all’ultimo attimo, fino all’ultimo respiro….noi saremo qui con te!
Nella frase seguente si racchiude tutto il significato: “tu sei tu… e sei importante fino alla fine…” (Cicely Saunders, medico-infermiera che inaugurò i primi Hospice e introdusse le prime cure palliative).
6) Che importanza e che ruolo ha, nella tua professione e, specificamente, in una realtà come i reparti terminali, la diagnosi?
La diagnosi è spesso un argomento difficile da affrontare. A volte non viene comunicata, altre nascosta dietro bugie.
I pazienti nei reparti terminali se arrivano senza una buona comunicazione hanno aspettative diverse dal decorso che avrà poi la malattia. Quando si rendono conto di non migliorare, di non guarire, a volte hanno sentimenti di rabbia per non aver saputo la verità, per non aver avuto la possibilità di capire che la prognosi era sfavorevole e sentono di aver perso “tempo prezioso per prepararsi”. Altri, pur avendone avuto la comunicazione, preferiscono non parlarne e respingere l’idea in quanto insopportabile il solo pensiero.
Rispettiamo la volontà del paziente di sapere o non sapere, esprimendo continuamente la nostra disponibilità a parlarne visto che spesso diventa troppo difficile e doloroso parlarne con i propri cari. Si crea una sorta di protezione reciproca, dove il paziente non vuole far sapere ai propri familiari della sua malattia e viceversa, perché hanno paura di far soffrire le persone a cui vogliono più bene.
E per questo è importante la nostra presenza: per permettere ad entrambi di parlarne con noi qualora lo vorranno.
7) Utilizzi particolari tecniche comunicative per interfacciarti con i pazienti e con i loro familiari?
La tecnica comunicativa che risulta più importante è l’ascolto, senza interruzione o interpretazione personale. Far capire che quello è il loro momento in cui possono aprirsi ed esprimere ciò che più fa paura, dando se richiesto risposte veritiere .
Spesso chiediamo di cosa hanno paura e la risposta è non di morire ma di soffrire, di non sapere come accadrà, di non sapere se ci saranno terapie che potranno aiutarli a soffrire meno, a controllare i sintomi.
Queste sono le risposte che possiamo dare: certo sarà comunque difficile ma sapranno che potranno avere un aiuto e che non saranno soli.
8) Secondo la tua esperienza, che effetto ha sul malato e sulla sua salute una chiacchierata o una parola di conforto?
Avere la possibilità di essere ascoltati ed esprimere i propri dubbi, i propri timori, trovare un po’ di conforto durante un momento di fragilità è una cosa importantissima che spesso può avere un ottimo beneficio sul controllo di sintomi quali ansia e agitazione, i quali spesso aumentano la percezione dei sintomi e del malessere, come per esempio la dispnea ed il dolore. Perciò resta un aspetto molto importante nella cura del paziente.
9) In un ambiente come i reparti terminali utilizzate, a fini terapeutici, la musica?
Qualche anno fa abbiamo avuto la figura del musicoterapista. Ora in ogni camera c’è un lettore cd. Non tutti pazienti gradiscono e traggono beneficio dall’ascolto della musica ma in molti casi questo è stato molto d’aiuto.
Ci è capitato di applicare l’utilizzo della musicaterapia a volte anche durante un bagno in vasca, momento in cui il paziente si è molto rilassato. Altre volte la musica è stata di sottofondo durante la permanenza in camera di un parente vicino al proprio caro rendendo questo momento
più dolce e meno pesante.
10) Ci sono state delle conversazioni con i pazienti che hanno cambiato il tuo modo di vivere e affrontare la vita?
Più che la conversazione con un paziente in particolare direi che ciò che ha influito su alcuni cambiamenti della mia vita sono stati diverse esperienze e vissuti durante questi anni.
Mi hanno fatto comprendere quali siano per me le vere priorità; mi hanno insegnato a non rimandare le cose importanti, i detti importanti che a volte si rimandano continuamente fino a quando è troppo tardi: “avrei voluto fare con lui… avrei voluto dire a lei…”.
E per questo sono riconoscente.
11) Che ruolo e che importanza ricoprono, nel tuo lavoro, il linguaggio non verbale e il tono di voce quando ti rapporti al paziente?
La comunicazione non verbale è a volte più importante di quella verbale. Uno sguardo può essere più significativo di mille parole; una carezza, tenere la mano, restare accanto in silenzio può riempire maggiormente il vuoto di una stanza piuttosto che mille discorsi.
Anche il tono di voce è sicuramente importante. Può dare più o meno valore a ciò che viene detto. Aggiungo che non solo il tono, ma anche una pausa tra una parola e l’altra: in quella pausa ci può stare un mondo.
12) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?
Voglio sottolineare ancora che, grazie a questo lavoro, ho compreso quanto sia forte il bisogno di sentire che qualcuno è lì per te che stai attraversando il momento più difficile della tua vita, il cammino che ti porterà alla conclusione ,momento in cui spesso tanti si allontanano perché non sanno cosa fare, non sanno cosa dire… o che stanno vicini ma lontani immersi ognuno nel proprio dolore senza però incontrarsi.
Essere infermiera mi ha fatto capire che nel momento in cui qualcuno dice “non c’è più niente da fare” in realtà c’è ancora tantissimo da fare; che le cure da mettere in atto ci sono affinché la sofferenza possa essere alleviata e dare dignità alla vita nel fine vita.
Per fare questo servono le terapie giuste ma anche personale professionalmente preparato, attento a tutte quelle piccole grandi sfumature che possono cambiare gli orizzonti e la colonna sonora di quelle giornate speciali dei nostri pazienti… se lo meritano.