Un lieve pizzicore mi solletica la punta della lingua. Mi faccio coraggio. Timidamente appoggio la sostanza appiccicaticcia sulle labbra, facendola scivolare con lentezza sino agli incisivi.
Dopo qualche secondo stringo i denti, in un morso così forte che mi impedisce di distinguere l’esatto punto in cui finisce il pezzettino di resina e inizio io. Lui e io formiamo uno strano tutt’uno. Il suo gusto tanto amaro è una calamita per la saliva, che sembra convergere verso lo spiraglio della cavità orale, lasciando gola e palato disidratati.
Ancora immobile, mi lascio trasportare dall’intenso aroma di abete che si è impadronito della mia bocca, e forse anche del mio cervello. Il sapore acre mi restituisce la dolorosa sensazione di essere perfino punta dagli aghi dell’albero dal cui tronco, qualche istante fa, ho staccato quel frammento di resina. Forse le sue lacrime.
Incuriosita, provo a dividere pian piano l’arcata superiore da quella inferiore, cercando di amalgamare la pasta appiccicosa con piccoli e ritmati morsi. È un lavoro certosino: la minima distrazione potrebbe costringermi a tornare daccapo, con denti e labbra fastidiosamente incollati fra loro.
A ogni sforzo della mandibola, percepisco il solidificarsi di quella strana sostanza che faccio scorrere ai lati della bocca: prima a sinistra, poi al centro e infine a destra. È come se ogni mio angolo orale volesse sperimentare il sapore di un abete.
Con mio grande stupore, trascorso qualche minuto, sento la resina cambiare muta: abbandonata la veste amarognola, ora, si vede perfettamente a suo agio con me, mi concede l’onore di mostrami la sua parte più dolce. Il suo cuore di zucchero mi allieta la consueta passeggiata pomeridiana, regalandomi una diversa e più intima immagine dei sempreverdi, sul cui tronco la riconosco nel suo stato originario.
Man mano che macino metri, tuttavia, sento il suo sapore affievolirsi, forse logoro dalla stanchezza proprio come le mie gambe. Il gusto acre dell’abete e la dolcezza del suo cuore sono solo ricordi. Masticando distrattamente quel che rimane di quella materia ormai scialba, ho come la sensazione di arrovellarmi con un frammento del nulla.
Forse con il gusto del ghiaccio. Quel ghiaccio che, durante il gelido inverno, conserva le innumerevoli lacrime versate dagli abeti, trasformandole in candida resina.