Vista (Udine)
Sono persa, smarrita. Questo labirinto di cemento mi inghiotte, non mi dà pace. Mi sento Alice, orfana del Cappellaio Matto.
Sto cercando disperatamente la via del ritorno, ma vicoli e viuzze s’intersecano tra loro e non mi lasciano scampo. Mentre l’imbrunire inizia a dispiegare il suo mantello aranciato, ombre allungate e sibilline si stagliano sui muri che mi circondano.
Alzo lo sguardo, alla ricerca di un particolare che mi indichi la via d’uscita. Anche le finestre degli eleganti palazzi sembrano prendersi gioco di me. Come fossero infiniti pistoni di una tromba, si aprono e si chiudono infondendo una melodia muta e scellerata.
Dunque, con il cuore in gola e passo svelto, imbocco una stradicciola, poi un’altra, e poi un’altra ancora, attraverso angusti portici i quali mi costringono a un profondo inchino.
Ed ecco allargarsi innanzi ai miei occhi impauriti uno spiazzo. Forse la libertà; più probabilmente una semplice boccata d’ossigeno. La piazza è gremita di gente che, al mio contrario, non pare avvertire smarrimento alcuno.
Io, d’altronde, da oltre un’ora sto vagando alla ricerca della mia ignota meta. Devo trovare un appiglio, un indizio che mi suggerisca l’approdo misterioso.
Alle mie spalle avverto una presenza imponente; mi giro di scatto. Una statua massiccia e fiera sta rivendicando la mia attenzione. Magari mi vuole indicare la via d’uscita.
Dunque, seguo la direzione del suo sguardo, che mi rimanda a quello di un’altra gigantesca scultura di marmo… e così via, fino a comporre un immaginario groviglio di fili. Punto al centro dell’invisibile matassa. La figura di un leone mi riporta indietro nel tempo: una volta, forse secoli fa, la terra che sto calpestando era affare della Serenissima.
Per lo meno, ho un vago riferimento di dove mi trovo. Con gli occhi accarezzo il profilo di un campanile, alla cui estremità giace un elegante orologio che mi suggerisce l’ora del risveglio. Oramai è tempo di salutare l’angelo orato che governa e sovrasta questo tortuoso labirinto di vie chiamato Udine.