Intervista all’autrice MARILENA BODEGA

1) Chi è Marilena Bodega?

Domanda difficile che porta a guardarmi dall’esterno, perché c’è Marilena come mi vedo io (come mi vedo o come mi vorrei), ma anche Marilena che vedono gli altri, con molti lati che a volte scopro solo nel confronto.

Ho cinquant’anni, ho studiato poco e lavorato molto, anche in ambiti diversi. Dopo la terza media ho frequentato la scuola alberghiera, che già comprendeva molte ore di lavoro giornaliere, 7 su 7. Scuola dell’Opus Dei, realtà non facile che mi ha aperto un mondo che non conoscevo e che non sono riuscita a condividere, ma la mia testardaggine mi ha portato a finire il percorso. Oggi lavoro in un supermercato, posto in cui mi piace osservare le persone e prenderne spunto.

“Gattara” nell’animo mi piace lanciare raccolte, iniziative e quanto più possibile per aiutare le volontarie, in particolare Zampamica.

Vista dagli altri sono una persona molto meno piacevole di quanto io mi illuda. A primo impatto dicono che risulto antipatica, polemica, precisina, chiusa; sono le cose che mi hanno detto che trasmetto (al lavoro), pare che poi però fortunatamente si ricredono.

2) Come ti sei avvicinata alla scrittura?

Ho sempre preferito le materie tecniche e matematiche a quelle classiche. L’animo si divide in due, la parte pratica, quella con regole precise, senza fantasia, dove in uno schema ci sta tutto ed è più facile da gestire. L’altra parte è quella delle parole e delle emozioni, più difficile da controllare, ma che lascia i ricordi più belli.

Piccolo aneddoto su come ho imparato a scrivere ed amare la scrittura. Ricordo un giorno, seconda elementare, la maestra Elena ci disse di descrivere quello che c’era sulla scrivania, “un bicchiere con all’interno uno spazzolino”. Poche parole, esattamente cosa ci si può aspettare da un bambino: non ci vedevo nulla di straordinario, voto “BENE!”. Mio papà lo lesse e mi riprese, non c’era scritto nulla secondo lui. Così la sera dopo portò a casa un pezzo del suo lavoro, una goccia di ghisa staccata da una saldatura. Mi chiese di toccarla, se calda, fredda, ruvida, liscia, leggera o pesante, mi spiegò che cambiava forma ad alte temperature e che il peso era relativo se confrontato a cose di uguali dimensioni ma peso diverso. Il tema successivo richiedeva la descrizione di un’arancia. Mi alzai, toccai, annusai e infine assaggiai, praticamente un trattato su un’arancia.

La frase, di mio padre, che mi spronò la sera col pezzo di ghisa, la ricorderò sempre ” hai 5 sensi per raccontare, descrivere, parlare, usali tutti”. 

3) Cosa significa per te scrivere? Ha per te effetti terapeutici?

Scrivo tutto, sempre a mano. Scrivo letteralmente su tutto, dal pezzo di scottex allo scontrino. Per non dimenticare, soprattutto scrivo di tutto: una ricetta, un’emozione, una frase che poi penso di inserire in un contesto più ampio.

Per me scrivere è comunicare, trasformare un pensiero in qualcosa che rimane, dare voce a chi non ne ha.

Non ho mai pensato alla scrittura come a qualcosa di terapeutico, ma riflettendoci bene probabilmente lo è. E’ quel momento in cui mi isolo, dove non devo pensare alla casa, al lavoro, agli altri; è il mio attimo egoistico, che dedico solo ai miei pensieri.

4) Le idee per i tuoi scritti ti vengono di getto o ragionate?

Sicuramente di getto, poi dopo una prima bozza cerco di ripulire, rifinire, estendere, ma la base è di pancia.

5) Quanta parte di Marilena c’è nelle tue opere?

Dipende: a volte c’è “Marilena”, altre nulla. A volte scrivo in prima persona qualcosa che non mi appartiene affatto, altre scrivo in terza cose molto personali. Sicuramente il vissuto ha influito molto.

6) Ti è mai capitato, nella tua carriera di scrittrice, di non riuscire a trovare le parole per esprimere un concetto o un’emozione? Cosa fai in questi casi?

Carriera è una parola che al momento non mi appartiene, un solo libro è quasi uno stage se paragonato al mondo del lavoro.

Capita spesso di dover o voler cercare parole diverse e magari non riuscire ad andare avanti perché non si riesce a trasmettere ciò che si vuole. In questi casi accantono: il mio comodino è pieno di incompiuti, di segmenti che cercano un collante. Lascio passare il tempo, poi smonto, rimonto, rifaccio e vedo se mi soddisfa, ma soprattutto se mi trasmette qualcosa, altrimenti torna nel cassetto.

7) Nella stesura di un’opera, che importanza dai alla scelta del singolo termine?

Mi piace cercare le parole giuste al momento giusto, ma è un “giusto” mio, perché sicuramente se avessi studiato di più avrei una scrittura più ricercata.

8) Veniamo alla tua ultima opera, “Frammenti di sciarpe rosse“, una raccolta di racconti brevi, i quali narrano spaccati dell’essere donna. A tal proposito, che significato (o significati) racchiude per te il termine “Donna”?

Vengo da una famiglia dove le donne sono state molto importanti, dove ci sono state donne molto forti, ma anche alcune molto deboli, alcune notate per la presenza altre per l’assenza. Loro sono state e saranno sempre motivo di ispirazione. Lavoro con tante donne e nessuna è uguale all’altra.

Mi viene in mente la famosa frase “uomini ominicchi e quaquaraquà“. Anche per le donne ci sono termini che descrivono mondi e modi diversi.

Le donne possono essere mamme, nonne, sorelle, compagne, mogli, amiche, amanti… ma se penso ad una sola parola che le accomuni è “figlie”. Tutte siamo state generate, poi qualcuna ha avuto un “Padre” e una “Madre”, altre solo “genitori”, nel senso più stretto del termine, cioè colui che genera. Ciò non toglie che siamo figlie di qualcuno e tutto parte da lì.

9) In alcuni racconti descrivi momenti in cui la protagonista si trova a esporre la sua esperienza, spesso spiacevole, a un gruppo di persone (ad es. in “Adele” ). Che importanza ha, secondo te, il condividere il proprio vissuto e le proprie emozioni attraverso il dialogo?

Il dialogo è fondamentale, gli altri ci conoscono attraverso questo. Proprio tramite le parole noi possiamo decidere cosa far sapere di noi agli altri, e siamo noi a scegliere cosa far vedere.

10) Nella tua opera, attraverso la voce di alcuni personaggi, volutamente utilizzi le parole come etichette (ad es. in “Barbara” ). quali sono, per te, i vantaggi e gli svantaggi che traggono le persone dall’uso di un linguaggio ricco di preconcetti?

Nel modo di esprimerci noi italiani siamo maestri di modi di dire, di frasi fatte, di etichette, ma se si guarda bene anche questo è un preconcetto. Stiamo cambiando, fortunatamente. Spesso si va oltre, ma rimaniamo ancora abbastanza chiusi al nuovo. Un esempio, sciocco, può essere “moglie e buoi dei paesi tuoi“. È un modo di dire, ma anche un preconcetto che il diverso non vada bene.

Oggi le distanze si sono accorciate, ma questo non toglie che l’idea di molti è che circondarsi di persone con storie, abitudini e modi uguali ai nostri renda tutto più facile. Io mi chiedo se, al contrario, non rimane tutto più noioso.

C’è l’idea che l’handicap precluda molte vie, eppure mio nonno, del 1921, molto giovane ha perso una gamba. Questo non gli ha impedito di sposarsi, avere 5 figli, fare l’orto, nuotare, guidare, soprattutto lavorare. Faceva il gruista (manovrava le gru dall’alto, salendoci). Era molto avanti: questo dimostra che l’ostacolo non era lui ma l’idea degli altri che se non sei uguale non puoi farcela.

11) Cosa vorresti trasmettere o fare arrivare al lettore con i tuoi racconti?

Semplicemente che non siamo soli. Tutti abbiamo debolezze, problemi, ostacoli, ma anche forza, pregi, voglia di riscatto.

12) Un’altra curiosità. In alcuni racconti, hai attribuito molta rilevanza alle espressioni corporee (ad es. in “I colori”). Che ruolo dai, dunque, come Marilena e come autrice, al linguaggio non verbale?

Anche in “Sciarpa rossa” c’è un linguaggio non verbale: tutto si svolge senza dialogo. Qualcuno osserva una persona, che sarebbe assolutamente anonima, se non per quel tocco di rosso.

Siamo noi che scegliamo se vogliamo essere notati o meno, ma anche il quanto lo vogliamo o in cosa. Ad esempio, si può scegliere se mettere una minigonna o una gonna molto lunga e coprente, ma tra una e l’altra ci sono tante misure, ci sono tessuti, forme e colori diversi. Con una gonna lunga informe posso comunicare di non guardarmi, se invece la gonna è lunga, colorata, accompagna il movimento, posso voler dire che sono consapevole di non avere delle belle gambe, ma non per questo voglio perdere la mia femminilità. Non so se sono riuscita a spiegarmi bene.

13) Un’ultima domanda. Attualmente, hai in programma nuovi progetti letterari? Di che genere?

Diciamo che mi sono molto di stimolo i concorsi per racconti brevi, quasi una sfida, indipendentemente dal risultato, perché mi permettono di raccontare il momento.

Ho iniziato anche scritti più completi, ma hanno bisogno di tempo, di preparazione, di ricerca per avere un senso. Il centro rimane sempre il mondo femminile.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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