1) Chi è Benedetta Arrighini?
Ciao a tutti, sono una dottoressa in giurisprudenza, mi sono laureata nel 2020 all’Università di Trento con una tesi in diritto penale internazionale. Oggi, dopo un master in diritto europeo, sono una dottoranda in Diritto penale europeo presso l’Universitè Libre de Bruxelles, ed ho un po’ spostato il mio focus. La mia ricerca, ora, si focalizza sulla cooperazione giudiziaria tra l’UE e l’America Latina. Diciamo diversi orizzonti, ma medesimo approccio: passione per problemi ignorati dal mondo occidentale.
2) Com’è nata l’idea di “trasformare” la tesi di laurea in un vero e proprio libro?
In realtà più che nata da me, mi si è presentata l’opportunità. Ho fatto un tirocinio presso “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”, un think tank che si occupa di Balcani. Grazie a loro sono stata contattata da Diego Zandel, uno scrittore, ma anche editore, che mi ha detto che le prime pagine della mia tesi lo avevano molto colpito, e che sarebbe stato davvero interessante pubblicare l’opera come un libro! Una proposta alla quale inizialmente non riuscivo a credere, e quindi ho iniziato questa avventura.
3) Prima di addentrarci nel tuo saggio, “Kosovo tra guerra e crimini”, credo sia opportuno qualche chiarimento preliminare. Che significato hanno le espressioni “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità” e “genocidio”?
Cercherò di spiegarlo in maniera chiara, cercando di non parlare troppo “giuridichese”. Sono innanzitutto crimini internazionali che sono, o diciamo dovrebbero essere, universalmente riconosciuti come tali. La definizione di questi crimini a cui si fa principalmente riferimento è quella data dallo Statuto della Corte Penale Internazionale del 1998, alla quale diversi Stati del mondo hanno aderito (per fare una postilla presente, non la Russia e non l’Ucraina). Ve li differenzio però: i crimini di guerra comprendono gli omicidi, le torture, e altri atti disumani che vengono compiuti in tempo di guerra. Quando vi è una guerra dichiarata, e la vittima è il “nemico, l’altra parte”.
I crimini contro l’umanità riguardano comunque atti contrari alla vita, alla dignità umana, ma si ritengono consumati in un momento differente dalla guerra, quando vi è un esteso e sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco.
Il genocidio è stato il più difficile crimine da definire (sembra assurdo, vero?). Esso consiste in atti compiuti con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, una popolazione civile.
La difficoltà di questi crimini, a mio parere, è che se commessi devono essere perseguiti, ma allo stesso tempo non è detto che un procedimento risolva i conflitti e azzeri la possibilità che la storia si ripeta.
4) Una domanda (solo) apparentemente scontata. Cos’è il Kosovo?
Il Kosovo è uno stato indipendente dal 2008. Tuttavia, non è riconosciuto da tutti i Paesi, tra cui diversi Stati Membri dell’Ue, tra i quali Spagna e Grecia. È un territorio di quasi due milioni di abitanti, tra il Montenegro, la Macedonia, l’Albania e la Serbia. Per secoli è stato un territorio serbo, più precisamente prima della guerra era una provincia autonoma serba, che però ha sempre avuto un’alta componente albanese. Da qui le ragioni del conflitto 1998-1999.
5) Addentriamoci ora nei fatti riportati nella tua opera: in particolare, nell’importanza avuta dalle parole nello scatenare e alimentare la guerra kosovara (1998-1999). Al proposito, che ruolo ha avuto, nel conflitto, la rivendicazione della propria appartenenza, “io sono kosovaro-albanese” e “io sono serbo-kosovaro”?
Mentre studiavo per la tesi (io ero molto appassionata di Bosnia Erzegovina, il Kosovo lo conoscevo poco), ho letto diversi libri legati proprio alla storia del Kosovo, a come queste popolazioni di fossero differenziate pur vivendo in un fazzoletto di terra. Uno di questi è “Tre canti funebri per il Kosovo”, di Ismail Kadare, il quale racconta attraverso delle storie la necessità di rivendicare questa appartenenza.
Il Kosovo è una terra sacra per i serbi, per la presenza della Piana dei Merli dove nel 1300 si e’ combattuta una battaglia comparabile alle Termopili (i Serbi hanno perso). Eppure, il coraggio che hanno dimostrato ancora viene ricordato. In più i serbi-kosovari sono ortodossi, e vi sono monasteri proprio nella regione del Kosovo, di Metrovica. Dall’altro lato, i kosovari-albanesi hanno una diversa cultura ed un’altra religione. Anche loro in Kosovo si sono insediati secoli fa, e anzi la popolazione albanese negli anni ’80 superava quella serba. Questo è, se mi permetto, il fascino ed allo stesso tempo la sfida dei territori dei Balcani: quando non vi erano confini le popolazioni si sono spostate e rispostate. Quindi, quando si è arrivati a parlare di confini, qualcosa di quel popolo miscellaneo si è rotto.
6) Già alla fine degli anni ’80, i serbi di Kosovo avevano proibito l’insegnamento e l’utilizzo istituzionale della lingua albanese. Che conseguenze e che significato ha impedire a un popolo (e al singolo) di utilizzare il proprio idioma?
Il problema è proprio che si creano tensioni. Le minoranze si sentono minacciate e questo crea il desiderio d’indipendenza. La non tutela di chi è diverso, in uno Stato, porta alla discriminazione, e di conseguenza alla frustrazione e poi si, possono nascere, non dico conflitti mondiali, ma certamente scontri spesso violenti. Ricordiamo che per questo, durante la guerra, negli anni ’90, la popolazione kosovara-albanese, profittando della “distrazione” della Serbia, stava costituendo uno Stato parallelo, con scuole in albanese e istituzioni in albanese. Da lì si è cominciata a vedere l’indipendenza.
7) Che ruolo ha giocato, invece, l’iniziale silenzio delle grandi potenze mondiali e delle istituzioni internazionali?
Devo rispondere brevemente: le potenze internazionali hanno guardato troppo tardi ai Balcani, e non parlo solo del conflitto kosovaro, ma anche della guerra del 92-95. Questo silenzio ha portato all’escandescenza. Poi non mi piace neanche dire che le potenze internazionali debbano giocare con il mondo a risolvere i conflitti (molto spesso li hanno iniziati) Tuttavia, in questo particolare momento credo che un intervento diplomatico già a fine degli anni ’80 sarebbe stato quantomeno utile, ma la storia non si fa con i se e con i ma.
8) Che cos’è Uçk? Perché i suoi soldati (paramilitari) hanno sempre rifiutato il dialogo, preferendo il linguaggio della violenza?
L’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (di seguito,Uçk), l’Esercito di Liberazione del Kosovo, è un’organizzazione paramilitare che già perpetrava attacchi nei confronti dei serbi per l’indipendenza kosovara. Diviene nota alla comunità internazionale e ai media solo durante il conflitto.
La violenza è sembrata la soluzione più veloce, soprattutto quando gli accordi di Dayton del 1995 non dissero nulla riguardo una possibile indipendenza del Kosovo, nonostante il lavoro diplomatico e pacifista di Ibrahim Rugova, che aveva appunto creato una comunità kosovara-albanese organizzata. Da quel momento l’Uçk ritenne che nulla c’era da fare se non agire con la violenza.
9) Durante i colloqui di Rambouillet (primavera 1999) la delegazione kosovaro – albanese e quella serba rifiutavano persino di rivolgersi la parola, necessitando della mediazione internazionale (come portavoce). Che significato attribuivano, dunque, le due etnie al rifiuto categorico di dialogo?
Tuttora i due Paesi non si parlano senza la mediazione internazionale. Entrambe le parti non hanno intenzione di riconoscere l’altra. E in questo sono particolarmente “testarde”.
10) Il tema principale del tuo saggio, “Kosovo tra guerra e crimini”, riguarda il ruolo affidato alle “Specialist Chambers of Kosovo”? Che cos’è e quali obiettivi ha tale istituzione?
Le Kosovo Specialist Chambers (KSC) sono un tribunale misto istituito nel 2016, di concerto tra Kosovo e Unione Europea, per processare i fatti posti in essere dall’Esercito di liberazione del Kosovo tra il gennaio 1998 ed il dicembre del 2000. Sono un’istituzione che opera un po’ nell’ombra. Non vi è molta pubblicità, anche se stanno lavorando molto e soprattutto hanno un obiettivo difficile da perseguire. La principale ragione per cui sono state create è perché i kosovari-albanesi sono stati accusati di aver trafficato gli organi di prigionieri serbi. Un’accusa che era arrivata già durante l’operato dell’ICTY, ma non vi era stata la possibilità di perseguirla. Ora si può immaginare quanto sia difficile indagare su un crimine del genere a più di vent’anni di distanza.
11) Perché è fondamentale, ai fini di “voltare pagina”, che ci sia una pronuncia da parte di un Tribunale (o un’istituzione affine) accertante quanto è accaduto durante il conflitto? Le Specialist Chambers of Kosovo, mettendo nero su bianco ciò che è successo, potranno permettere al popolo kosovaro di archiviare il loro passato?
Forse non parlerei di “voltare pagina”, ma più di affrontare quanto accaduto, processarlo e averlo come monito per evitare un futuro conflitto . Ecco: direi “passare al paragrafo successivo”. Il problema che affronto anche nel libro è proprio il fatto che non credo che un Tribunale possa mettere fine a tutto questo, soprattutto perché i kosovari a livello locale non se ne curano e comunque ritengono di aver agito perché i serbi hanno iniziato (cosa peraltro vera). Dall’altro lato i serbi già sanno che tutti li considerano i cattivi della storia, quindi anche questo tribunale è poco importante per loro.
Io credo che qui serva un lavoro di ricostruzione di una memoria condivisa, che, ahime, nei Balcani è ancora difficile.
12) Quanto è importante, per i singoli, la popolazione coinvolta e la comunità internazionale, ascoltare dalla vivavoce dei testimoni ciò che è accaduto in Kosovo nel triste biennio 1998-1999?
La cosa che bisogna pensare è che quando parli con un kosovaro-albanese della guerra, o con un serbo, loro hanno non il nonno, ma probabilmente il padre o lo zio che l’ha combattuta. Questa è una cosa che non smette mai di stupirmi. E questo è una grande risorsa, e il concetto è che sarebbe interessante far sì che entrambe le parti ascoltino entrambe le storie, per capire che non sono stati tanto diversi, e accettare quanto è successo.
13) Un’ultima domanda. Qual è l’attuale situazione in Kosovo?
Non come te l’ho descritta nella risposta precedente! Direi che l’attuale situazione è
altalenante. Il Kosovo è uno Stato estremamente giovane che sta cercando di dimostrare
alla comunità internazionale che può stare tra gli altri Stati. Non è facile perché la
Serbia non sembra intenzionata al riconoscimento.
Su questo, nonostante l’UE stia lavorando per un dialogo Belgrado – Pristina ai piani
alti, la tensione tra i locali è una miccia che può accendersi in qualsiasi momento. E
infatti, proprio pochi giorni fa, il 26 maggio, vi sono stati scontri nel nord del Kosovo,
nella regione della Mitrovica, a maggioranza serba. Vi sono tre villaggi nel nord del
Kosovo che hanno visto la vittoria di tre sindaci albanesi, in un territorio a maggioranza
serba. La maggioranza non ha voluto che si insediassero e pare che diversi serbi siano
arrivati da fuori Kosovo per protestare. Il Kosovo ha mandato la polizia armata, e anche
la KFOR (il comando NATO) è intervenuto, ma questo non ha diminuito la tensione,
anzi, gli scontri hanno portato al ferimento di alcune forze dell’ordine.
Ora si chiama al: “bisogna trovare soluzioni diplomatiche”. Ma è una situazione delicata,
in cui la stessa popolazione prova forte odio per l’altro.
Mio consiglio personale è cercare di non leggere una notizia sui giornali, ma più analisi,
perché purtroppo su un territorio cosi piccolo e, mi viene da dire, “incandescente” le
notizie sono spesso travisate o non approfondite.
Consiglio anche di sbirciare sempre il sito di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, loro fanno sempre ottime analisi.
Un grazie speciale a Benedetta Arrighini, la quale, attraverso l’intervista, ci ha permesso di conoscere una realtà apparentemente lontana ma così vicina alla nostra Nazione: il Kosovo. Le sue parole sono essenziali per meglio interpretare i fatti di recentissima cronaca, per i quali abbiamo dovuto cambiare in corso l’ultima risposta.