Chi è Albino Monteduro?
Sono un architetto, appassionato d’arte e affascinato dalle vicende umane. Ovviamente, non per prodigio. Le letture, da bambino, della nonna paterna, le fiabe dei Grimm, di Perrault – la gatta grigia, acciambellata accanto al braciere invernale: il mio “gatto con gli stivali” –, l’Ivanhoe di Scott – i Sassoni, i Normanni, i cavalieri. La scoperta, poi, per mio conto, dei narratori russi, la forza straordinaria di Dostojevskij. I francesi: Baudelaire, Rimbaud, Flaubert, Maupassant… Insomma, appassionato e affascinato non per caso!
Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Ci sono arrivato attraverso la pittura (montalbino.it). Per molti anni ho dipinto un giardino della mia infanzia rivisitandolo, reinventandolo e proponendolo, pittoricamente, come “metafora del Mondo”. C’è voluto poco a desiderare di volerlo anche descrivere… con dentro i personaggi.
Cosa significa per te scrivere? Ha effetti terapeutici?
Anche per me, scrivere, ha il significato che credo abbia per tutti: essere in grado di raccontare e modificare destini (facoltà non comune per un umano!). L’effetto terapeutico è una conseguenza: è la stessa azione dello scrivere che produce sostanze terapeutiche in grado di procurare, per esempio, benessere.
Le idee per i tuoi scritti ti vengono di getto o sono ragionate?
Non ho mai un progetto prestabilito. Sono sempre alla cerca di stimoli casuali. È un fuoco, in un sogno, che sprizza faville; un mare stracciato in superficie dallo scirocco; un amore tra adolescenti che non si spegnerà mai… cose così. Poi, dall’input iniziale, provo a strutturare la storia e scriverla.
Quanta parte di Albino c’è nelle tue opere?
Pur non avendo scritto biografie (magari, lo farò), nei miei libri, ogni tessera e ogni brandello descritti, sono esperienze – dirette o indirette – della mia vita.
Ti è mai capitato, nella tua carriera di scrittore, di non riuscire a trovare le parole peresprimere un concetto o un’emozione? Cosa fai in questi casi?
No, mai.
Nella stesura di un’opera, che importanza dai alla scelta del singolo termine?
Moltissima. Praticando anche la pittura, sono abituato a osservare e descrivere. Solitamente, procedo così: “butto giù” le idee che mi vengono e, finché ho delle idee in mente, faccio solo quello. Poi, in momenti diversi, rileggo e rifinisco. In questa fase sono puntiglioso e mi concentro sui termini più opportuni (non a caso, l’altro significato di “termine” è “limite”). Ma non solo: mi soffermo alla ricerca dell’aggettivo appropriato. Mi piace ritornare sulle forme verbali. Sono attento all’ortografia… i miei primi libri, li ho riscritti due o tre volte.
Veniamo a una delle tue opere, “Bruna”, un romanzo di formazione ambientato in terra pugliese. In alcuni passaggi del libro, ti riferisci alla protagonista con la locuzione “femmina Bruna”. Che significato ha, per te, tale espressione?
“Femmina Bruna” per gli occhi di Domenico! Gli adolescenti, quando si accendono per una donna, in apparenza la idealizzano… ma non è così. La vera forza propulsiva, taciuta, è il sesso (naturalmente, senza mai ammetterlo apertamente). Ma quando la fantasia si scatena, è tutt’altra cosa. Pensare a “Bruna” in quanto “femmina” è quasi come copulare con lei… come già avvenuto – alcune pagine prima – con l’ignara lavandaia.
Per me, ovviamente, come unità linguistica suona rozza e, tutto sommato, irrispettosa da rivolgere a una “madre di famiglia”; peraltro, succube di un marito-padrone.
Il tuo romanzo è incentrato sull’impossibile storia d’amore fra Domenico, 16 anni, e Bruna, di 36. Dal racconto emerge come il giovane protagonista fatichi a esternare a parole i propri sentimenti ed emozioni. Perché, secondo te, per i ragazzi di oggi l’esprimere verbalmente “ciò che hanno dentro” costituisce un tabù? Come si potrebbe superare tale impasse?
Beh, proiettando all’oggi, credo sia paura. I ragazzi di oggi, spesso, sono intimiditi dalle coetanee. Le trovano più determinate, persino aggressive, al punto che difficilmente riescono ad aprirsi con loro. E quanto più l’incomunicabilità cresce, tanto più i rapporti reciproci si deteriorano. “Quel bambolotto,” mi confidava Giulia (diciassette anni), mia esuberante allieva nel liceo dove ho insegnato, “mi metto in evidenza, glielo faccio capire in mille modi, ma lui se ne resta così, come un tubero. Cosa vuole? Gli devo sbattere la “f…” in faccia?” . Testuali parole; a suo tempo, ne ho preso nota.
Non penso ci siano soluzioni immediate e credo sia qualcosa di più di un’impasse. Non a caso – quale estrema, vigliacca e criminale reazione da parte del cosiddetto “sesso forte” – si intensificano violenze di ogni genere sulle donne. Credo che la questione sia culturale: occorrerebbe, da bambini, ricominciare tutto daccapo e chiarire alla metà del mondo dei maschietti che le femminucce sono, a giusto diritto, l’altra metà esatta. Senza sconti o obbligazioni!
Nell’opera metti in risalto le molteplici differenze tra campagna e città: una di queste è data dal linguaggio. In che termini il luogo dove abitiamo condiziona il nostro modo di esprimerci e, dunque, di rapportarci agli altri?
In modo totale. Tutti noi somigliamo al luogo in cui viviamo e, naturalmente, non c’è paragone tra la cultura provinciale e quella cittadina. La salvezza sarebbe viaggiare (per conoscere, esaminare, smitizzare…), seppure – per ragioni diverse e complicatissime –, nell’attuale contesto stia diventando tutto più difficoltoso.
Cosa vorresti trasmettere o fare arrivare al lettore con il tuo romanzo?
Non lo so. Scrivo solo per me stesso perché mi piace da morire. Ma quando qualcuno mi legge e, magari, mi fa sapere: “Toh, in quella storia ci sono anch’io, Un po’ mi ci riconosco”. Beh, in tal caso, quello che provo è felicità vera.
Un’altra curiosità. Nella tua opera hai attribuito molta rilevanza alle espressioni corporee, anche a fini educativi e interpersonali. Che ruolo dai, dunque, come Albino e come autore, al linguaggio non verbale?
Si sa che esistono vari piani comunicativi e tutti egualmente efficaci. Ma il linguaggio del corpo, le espressioni del viso, i tremori, i rossori… possono costituire momenti di poesia assai efficaci nel testo scritto: “Sollevava lievemente le labbra da un lato, non proprio un sorriso, piuttosto una smorfia. Un segno che era come un messaggio segreto, invisibile a ognuno a quel tavolo, ma lampante per lui” ecco un esempio di espressività non verbale che determina una comunione tra i protagonisti, li rende complici.
Un’ultima domanda. Attualmente, hai in programma nuovi progetti letterari? Di che genere?
Certo. Proprio in questi giorni, la Swanbook Edizioni di Desenzano del Garda lavora alla produzione di un mio nuovo libro che avrà titolo CISLONGA e che sarà in libreria prima di Natale. Si narra dell’incontro tra Annalisa (una donna trentenne, bella, sportiva, intelligente) e Flavio (un uomo trentasettenne, gallerista e corniciaio nell’hinterland milanese). Personaggi perfetti per una bella storia d’amore… almeno, a tutta prima.