43° settimana: SING/CANTARE
Lo scatto metallico delle manette segnava la mia resa. O, forse, la mia liberazione. Oramai da anni non facevo più niente per nascondermi, lasciando il mio futuro nelle mani del destino.
Non volevo finire in carcere, certo, ma probabilmente in galera c’ero già da molto tempo. Più o meno consapevolmente. Anzi, in un certo senso ero doppiamente galeotto, prigioniero della mia anima, dei suoi sensi di colpa, e di questo schifoso sistema. Un cappio intorno al collo.
Sì, perché non hai scelta. Non è vero che, in questa dannata terra, sei padrone della tua vita; non lo sei. O così, o morto. È la mentalità che t’inculcano fin da bambino e che io ho ereditato da mio padre, da mio nonno, dal mio bisnonno.
Come puoi mettere in dubbio la tua stessa educazione?
Sono delicati giochi di potere e a questo, ognuno di noi, non sa resistere. Ma tutto ha un prezzo; tutto si paga. E il mio conto si è presentato salato.
Non l’ho fatto per tradimento o codardia; solo per sentirmi libero, sgravato da quei pesi che erano come macigni. Solo dopo qualche giorno di carcere ho imboccato la strada. La strada giusta, dicevano loro; la via dell’infamia, secondo il mio credo.
In una squallida e anonima cella di un carcere, ho fatto affiorare antichi segreti, indecenti vergogne di cui ero custode. E l’ho fatto davanti agli occhi allibiti e perplessi del magistrato.
Una scelta coraggiosa o, piuttosto, codarda, anch’essa lavata con il sangue. Questa volta non mio. Appena ho iniziato a CANTARE, i vermi schifosi là fuori si sono vendicati su Gabrielino, mio fratello. Aveva solo dodici anni quando si sono presi la sua vita, giustificando l’assurdo gesto con il loro codice d’onore, che per anni è stato anche il mio. E forse lo è ancora.