In questa puntata della rubrica “Parola all’esperto“, un’interessante intervista a Monica Ripamonti, preparatore atletico e presidente dell’A.S.D. Palestra Adda. Associazione che, operando nella piccola realtà di Arlate (LC), crede ancora nei valori fondamentali dello sport, quali l’impegno, la passione e la cura di sé.
1) Cosa ti ha spinta a intraprendere la professione di preparatore atletico?
Ciò che mi ha spinta a intraprendere questa professione è stata sicuramente la passione: la passione per lo sport, per l’attività fisica. Questo lavoro mi permette di esprimere la mia personalità e le cose in cui credo.
2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio tecnico del mondo del training?
No, non ho avuto particolari difficoltà. Con il tempo, però, il linguaggio continua a cambiare e ciò che conta è che il preparatore atletico riesca sempre a trasferirlo all’altro (a chi sta facendo attività fisica). Per questo cerco sempre di semplificare la terminologia al fine di dare a tutti l’opportunità di capire. Credo che ciò sia fondamentale per poter costruire un lavoro comune.
3) Qual è la “missione” del preparatore atletico?
Sicuramente, a mio parere, la “missione” del preparatore atletico è quella di trasmettere il piacere per lo sport, per il movimento, per tutto quello che è attivo. Il corpo umano è una macchina perfetta, eccezionale.
Possiamo riscoprirci a ogni età, ottenendo dei risultati diversi. A me, ogni volta, emoziona l’incontro con persone diverse, che approcciano l’attività fisica in modo diverso e per cui devo trovare soluzioni diverse.
Mi piace anche sperimentare tecniche su me stessa, ricercando attività sempre un po’ più affini alla mia spiritualità e non coinvolgendo semplicemente il fisico.
4) Quant’è importante, nella comunicazione con l’atleta, il lavoro e la spinta motivazionale del professionista? Qual è l’aspetto più difficile nel relazionarsi con l’atleta?
È molto importante la comunicazione con l’atleta, o comunque con chi frequenta la palestra. Solitamente io, anzitutto, mi approccio alla persona: cerco di metterla a suo agio, partendo col lavorare sui punti di forza in modo da accompagnarla man mano nel mondo dello sport. Infatti, non a tutti la palestra (e lo sport) rende felici: alcuni si sentono inadeguati.
Purtroppo, ancora troppo spesso, si pensa che la palestra sia un ambiente esclusivo, adatto solo a coloro che possono fare esercizio, che hanno un bel fisico, che raggiungono prestazioni alte. Invece, la palestra è un luogo aperto a tutti, non solo all’atleta: tu entri in palestra per fare un percorso su, con e per te stesso.
Ribadisco però, alcuni non hanno un approccio molto sereno con se stessi. Dunque, ciò che cerco di fare è di farli sentire a loro agio. Solo quando hanno trovato il loro equilibrio, allora inizio a lavorare sui deficit, spiegando loro che deve essere uno stimolo al cambiamento (a livello posturale). Si deve tener presente che ciò che si fa in palestra è funzionale alla vita quotidiana: imparare a raccogliere nella maniera esatta un cesto pesante, conoscere la postura corretta. In questo modo, noto che le persone sono più propense all’esercizio fisico e alla palestra.
Quando riesco a far passare questo messaggio, e la persona inizia a sentirsi a proprio agio con se stessa, per me è un’importante vittoria.
5) Spesso, quando taluno inizia un percorso di allenamento, si propone il raggiungimento di un determinato risultato (perdita di peso, gara, ecc…). Al fine di tale obiettivo, quanto conta “la testa” dell’atleta?
La prima cosa che valuto è se l’atleta ha già un’esperienza e un inquadramento sportivo. Se hanno già un inquadramento lo mantengo, facendomi coinvolgere nel suo precedente percorso di allenamento. Quindi, cerco di dare delle informazioni diverse, valutando un allenamento incentrato maggiormente sull’atteggiamento posturale, aspetto spesso trascurato.
Ciò che spiego poi agli atleti è che, essendo tutti morfologicamente diversi, dovremmo adottare tutti tecniche di allenamento diverse, considerando sia i punti di forza che i deficit. Comunque, per impostare il lavoro, si deve tenere conto degli obiettivi che ognuno vuole raggiungere. Personalmente, suggerisco sempre di fare attività fisica ai fini del benessere e della salute; tuttavia, non sempre l’atleta è d’accordo con me, aspirando solo a “diventare grosso”. A mio avviso, dovremmo insegnare alle persone che è meglio iniziare con un esercizio molto semplice, mirato alla coordinazione del movimento, per poi passare a un esercizio maggiormente complesso, con il supporto delle macchine al fine di aumentare la massa muscolare.
Al contrario, si rischia di non raggiungere l’obiettivo o di danneggiare il proprio corpo. Però, su ogni persona va fatto uno studio a sé e le vanno dati certi consigli. Bisogna augurarsi che la persona entri in sintonia con me o, quantomeno, abbia fiducia in me.
6) Quanto è importante e che utilità ha ascoltare la musica durante gli allenamenti?
La musica è un elemento importantissimo. Per alcuni è essenziale, soprattutto per i giovani. I giovani hanno bisogno del ritmo, di qualcosa che li carichi. Quando, invece, passiamo i 50 anni non a tutti va bene, perché la musica può essere fonte di distrazione che toglie l’attenzione dall’esercizio.
Ho avuto persone cui la musica urtava così tanto da perdere il controllo.
Solitamente, quando si fanno lavori di gruppo la musica c’è. I giovani invece mettono gli auricolari con musica che li carica a seconda dell’allenamento, che varia con l’età.
Normalmente, comunque, la musica dovrebbe essere la base dell’allenamento.
7) Incontri molte difficoltà, con l’atleta (o il tesserato), a utilizzare il linguaggio tecnico? Come ti comporti se questo non viene compreso?
È più facile usare il linguaggio tecnico con i giovani perché loro sono curiosi e molto più aggiornati; hanno proprio bisogno del linguaggio tecnico. Con gli adulti, invece, evito di utilizzarlo. Al contrario, uso un vocabolario semplice, in modo da non farli sentire a disagio.
Quando il linguaggio non è compreso adotto espressioni proprio basiche basiche. Infatti, gli attrezzi, spesso, non li chiamiamo con il loro nome tecnico, ma attribuiamo a ciascuno un nome convenzionale cosicché, anche se tecnicamente non corretto, è più facile per il tesserato fare l’associazione, soprattutto quando va a leggerlo sulla scheda tecnica. Spesso il nome dato a una macchina è legato allo specifico movimento cui è deputata.
8) Nella tua esperienza professionale, in quanto preparatore donna, hai trovato qualche difficoltà in più rispetto ai tuoi colleghi uomini?
Sì, soprattutto con i ragazzi; con loro sono molto più severa. Siccome vedono una figura femminile, e per loro cambia moltissimo rispetto alla figura maschile, sono costretta a guardarli con certi sguardi di “rimprovero” per rimetterli in riga.
L’istruttore uomo e l’istruttore donna sono due mondi completamente diversi. A me è infatti capitato, nel corso degli anni, di non essere considerata; soprattutto quando ero più giovane. Però, poiché sono una persona tosta, i ragazzi hanno dovuto rivedere i loro atteggiamenti nei miei confronti.
Una cosa cui tengo molto è il credo per cui, quando svolgiamo il ruolo di preparatore (donna o uomo che sia), dobbiamo tenere una certa distanza. Questo deve subito essere chiaro, soprattutto quando mi approccio all’altro sesso: “io sono il preparatore, tu sei l’atleta”. Nel mio lavoro, inoltre, c’è anche il rischio per cui se l’atleta, nel mio caso, ha una moglie o una fidanzata, bisogna stare attenti a non scatenare dinamiche di gelosia.
Dunque, il riconoscimento del ruolo che hai l’ho sempre messo al primo posto: non c’è altro oltre a questo. Ciò deve essere chiaro.
Soprattutto quando ho iniziato, il preparatore donna doveva anche scontrarsi con il pregiudizio della “donna-immagine”, ruolo che non ho mai accettato. Io semplicemente sono l’istruttore sala, una persona che lavora e aiuta il percorso degli atleti.
9) Il preparatore, spesso, affianca il suo lavoro a quello di altri professionisti. Perché e quanto è importante che non travalichi le sue competenze e il suo ruolo?
È fondamentale che il preparatore si ricordi sempre di essere solo un preparatore atletico meccanico, senza specifiche competenze né conoscenze in campo alimentare e corretta nutrizione. Dunque, non è abilitato a fare schede alimentari, né a sostituirsi ad alcuna figura fisioterapica o sanitaria: deve ricordarsi che è un professionista solo in ambito sportivo, non un tuttologo.
Personalmente, quando ho dubbi o perplessità, mi rivolgo a figure sanitarie specializzate (ortopedico, fisioterapista, ecc…), con cui ho creato un’associazione, con le quali mi confronto e a cui chiedo suggerimenti. Questa interazione per me è fondamentale, professionalmente e umanamente.
Quando arrivano ragazzi, solitamente molto giovani, che vogliono schede alimentari io rifiuto categoricamente di fargliele perché non è di mia competenza; al più, posso dare consigli laddove c’è già un programma e qualora avessero dei dubbi.
10) Nel tuo lavoro, che ruolo e che peso ha il linguaggio non verbale?
È importantissimo. Io lo uso soprattutto all’inizio: quando non conosco una persona studio molto il linguaggio del corpo. La stessa cosa viene fatta su di me, è normale; ad esempio, se non approvo qualcosa o se un esercizio non è svolto correttamente devo sempre ricordarmi di mantenere un atteggiamento positivo e di mascherare il mio disappunto.
11) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?
Vorrei concludere con la frase che rappresenta per me un mantra di vita: “Rimanere allievo è il segreto di ogni maestro”.
Infine, vorrei ringraziare Silvia per avermi dato l’opportunità di rispondere a questa intervista e vorrei farle i complimenti per il suo stupendo blog.