LA TERAPISTA BERTELE’ RISPONDE

Per la rubrica “Parola all’esperto”, come anticipato, un’interessante intervista a Giulia Beccaro, terapista Bertelè, che ci porta alla scoperta e all’approfondimento del metodo, in continuità con la chiacchierata pubblicata sul blog con la dottoressa Laura Bertelè.

1) Cosa ti ha spinto a intraprendere il percorso per diventare “terapista-Bertelè”?

È stato un vero colpo di fulmine. Avevo 29 anni e ancora non sapevo bene cosa avrei voluto fare da grande. Finché un giorno ho deciso di prenotare un trattamento Bertelè. Quello che adesso è un mio collega, alla fine del trattamento mi disse: “Come va?”. Ed io risposi: “Cosa devo fare per fare il tuo lavoro?”.

2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio tecnico del metodo Bertelè?

Laura [Bertelè, n.d.r.] spiega il funzionamento delle catene muscolari parlando di energia, reattività, compressione… e di bisogno di fare spazio, liberare, sciogliere. Mi viene da dire che l’esperienza di ogni singolo muscolo è ad immagine e somiglianza di quella che vive la persona nella sua interezza per cui il messaggio del metodo Bertelé mi è stato sempre di facile intuizione.

3) Qual è la “missione” del terapista-Bertelè?

Impossibile rispondere in modo generalizzato. Ogni terapista, Bertelé o non, mette in campo le sue sfumature, la sua energia, la sua esperienza professionale e di essere umano. E questo avviene in modo più o meno cosciente, in base al livello di consapevolezza di ognuno. Se devo dire per me, il mio obiettivo mentre lavoro è accompagnare la persona verso il benessere e l’aumento della percezione e conoscenza del suo corpo. Più ti conosci e più aumenta la capacità di padroneggiare il corpo.

4) Veniamo all’importanza delle parole e della comunicazione nella tua professione. Quanto è importante e cosa significa, per te, empatizzare con il paziente?

Dipende. Ci sono persone a cui piace chiacchierare, altre che invece sentendo affiorare la tensione nel corpo, mi parlano del loro vissuto. Altre con cui non si proferisce parola: ci si mette in totale ascolto del corpo e si respira. La mia empatia consiste nel cercare di cogliere, ogni volta, il modo giusto di mettermi a disposizione anche dal punto di vista comunicativo.

5) Quando, letteralmente, metti le mani su qualcuno, in che modalità comunica con te il corpo di quest’ultimo? In cosa consiste, dunque, il metodo Bertelè?

Laura ci insegna che dentro ad ogni contrattura c’è una storia di emozioni non viste, non accolte, rifiutate o troppo difficili da elaborare. Ho potuto verificare che più vado avanti nel mio personale lavoro di consapevolezza di me stessa, più aumentano la possibilità e la capacità di percepire l’altro. E allora anche un respiro, una smorfia, il tono della voce, un pianto o una risata incontrollata sono modi di comunicare. Serve saper vedere… come ci dice Laura.

6) Nel tuo lavoro, quanto conta e quanto limita la diagnosi?

Rispondo sempre per me. La diagnosi la leggo sui referti degli esami che mi portano i pazienti. Poi mi faccio raccontare tutto a voce dalla persona che ho davanti e questo perché devo acquisire dati sul dolore che da lì a breve andrò ad ascoltare con le mani, nonché tutta una serie di informazioni sul rapporto che la persona ha col suo corpo e il suo dolore. La diagnosi a me serve a poco: il mio lavoro mi insegna costantemente che le risorse che una persona può mettere in campo, una volta che trova l’ambiente giusto per sciogliersi e sciogliere le tensioni, sono di gran lunga più determinanti di una previsione fatta da un esame clinico.

7) Nel rapporto che istauri con il paziente, che significato attribuisci al termine “fiducia”?

È tutto. L’ho capito come “paziente” e lo vedo come terapista: se non si ha fiducia e non si riesce ad affidarsi ad un terapista, il percorso di guarigione è impraticabile.

8) Spesso i trattamenti sono accompagnati da musica classica. Perché è importante e che funzione ha?

Tutto è informazione. Tutto ci informa e ci modifica. Uso la musica di pianoforte ma anche musica meditativa (campane tibetane, suoni della natura come acqua o canto degli uccellini). Mi lascio guidare dal mio intuito e creo atmosfere. Uso anche gli oli essenziali perché anche quelli danno una certa risposta sul corpo e sulla mente. Pensa che una volta, per calmare l’agitazione di una paziente che non riusciva a rilassarsi perché aveva le vampate di caldo, ho messo i suoni di un temporale, una goccia di olio balsamico sulle mani e ho chiesto alla signora di chiudere gli occhi e immaginare di essere in un bosco… dopo un poco mi ha chiesto la copertina!!! Giuro!!!

9) Durante la seduta, paziente e terapista giungono, insieme, a un livello di consapevolezza più profondo. Come avviene, secondo te, questa magia? Perché è fondamentale?

È proprio una magia quella che avviene ma ancora non ho imparato a padroneggiarla completamente. È veramente infinita. Per ora posso dirti che gli ingredienti principali sono: attenzione, dedizione e soprattutto presenza nel “qui e ora”. E questo vale sia per il terapista che per il paziente.

10) Quali sono le maggiori difficoltà comunicative che riscontri nel tuo lavoro?

Non ne ho. O meglio, quando sono in difficoltà nella comunicazione, semplicemente, sto zitta… il mio lavoro è principalmente “far andare” le mani. Lascio a loro poi, alle mie mani,  il compito di comunicare con le persone. Ciò che voglio dire, se non riesco a dirlo a voce, passa attraverso le mie mani. Quasi sempre.

11) Abbiamo appreso che, a differenza della maggior parte dei lavori, il tuo è basato più che altro sulla comunicazione non verbale. Dunque, ti faccio la domanda inversa: che peso ha, nell’ambito della tua professione, la comunicazione verbale?

Anche qui ti dico che dipende. Se alla persona che sto trattando va di chiacchierare, si chiacchiera. Allora la comunicazione verbale ha la finalità di alleggerire la pressione cui si può andare incontro ascoltando il corpo. Per qualcuno sentire questa pressione è troppo. Per qualcuno è proprio ingestibile. Allora la comunicazione verbale è fondamentale. Io sciolgo le contratture con le mani mentre l’attenzione della persona è “occupata” su un altro piano. Diciamo che così il paziente riesce a “farmi fare”. Inoltre la comunicazione verbale è un ottimo strumento di acquisizione di dati che riguardano la persona. È conoscerla ancora di più.

12) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo delle parole nella tua professione?

Si: già il fatto di sapere che esiste qualcuno che ci sappia vedere e ascoltare ci fa sentire curati e, di fatto, ci cura.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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