Per la rubrica “Parola all’esperto“, una curiosissima intervista alla dott.ssa Francesca Fumagalli. terapista d’arte. Francesca ci racconterà l’arte sotto una diversa forma: non come “commissione”, ma come “bisogno”.
1) Cosa ti ha spinto a intraprendere il percorso artistico e, più precisamente, terapeutico?
Sin da piccola il mondo creativo è stato il mio “posto sicuro” , un luogo dove scappare dalla freddezza, dal caos e dal grigio anonimo del mondo. Spesso la creatività ci permette di uscire dagli schemi. A volte è proprio di questo che abbiamo bisogno per sentirci meglio, tornare bambini, riuscire a stupirci ancora delle piccole cose e perderci nel processo creativo per ritrovare noi stessi.
Questo potere del processo creativo è molto terapeutico anche grazie alle metafore che l’arte ci offre attraverso diversi materiali, l’espressività del segno, la scelta del colore e del supporto. Sto parlando di un’arte che parte da un bisogno di espressione, non da una commissione, ma da un bisogno personale.
Vorrei consigliarvi la lettura di un libro che spiega quanto l’arte spesso sia un bisogno necessario: “Visionari. Arte, sogno, follia in Europa”, di Giorgio Bedoni.
2) Hai avuto difficoltà ad approcciarti al linguaggio artistico?
Dipende cosa si intende per linguaggio artistico. Se si intende muoversi attraverso i diversi periodi artistici, le diverse tecniche, le diverse correnti un po’ di difficoltà l’ho trovata. Partendo dalla preistoria e arrivando ai giorni nostri, come nelle correnti letterarie, anche in quelle artistiche, cerchi di capire come gli eventi storici abbiano influito e questo è un po’ complicato. Si tratta di sapersi muovere in questo mondo e di saper contestualizzare ed a volte decontestualizzare.
Il discorso cambia se si tratta di una “commissione”, ove la richiesta che viene fatta potrebbe cadere in un’impasse. Infatti, il modo in cui ti esprimi non è per forza quello che userebbe un’altra persona. Diciamo che spesso la parola è meno soggetta ad interpretazione rispetto ad un segno artistico o alla trasposizione narrativa di quell’oggetto/soggetto. Ovvero: se mi chiedi di disegnare un albero, entrambi sappiamo di cosa si sta parlando, ma l’idea grafica (ma anche quella legata ad un ricordo o una descrizione sensoriale) non è la stessa da ambedue le parti. Questa, a mio avviso, è una delle più belle libertà che il processo creativo ci offre! Purtroppo, come detto sopra, ciò potrebbe creare difficoltà nella commissione.
Se invece si intende linguaggio artistico nel termine più processualmente artistico-creativo, ossia se si tratta di un’arte che nasce da un bisogno di espressione di portare fuori, di comunicare e “esorcizzare”, allora no, nessuna difficoltà poiché non si tratta di una costruzione tecnicamente supervisionata. Anzi. Sovente è molto più naturale utilizzare essa che utilizzare la parola per potersi esprimere, per rendere visibile un dolore, un trauma, una situazione, un disagio, una sensazione, tirarla fuori renderla materia e farla propria, plasmandola ed entrando in relazione con essa. Forse la difficoltà maggiore è quella di restare fedeli a se stessi e cercare di districarsi dalle viscere delle nostre profondità.
3) Qual è la “missione” del terapista d’arte?
L’artista terapista ha il compito di facilitatore nella collaborazione e nella comunicazione tra individui. Inoltre, ha il compito di far nascere domande a cui poi ogni partecipante arriverà tramite un proprio percorso, una sorta di maieutica socratico platonica. L’artista terapista ha poi l’incarico di fornire i giusti strumenti artistici e metaforici con il quale ognuno lavorerà e di accertarsi che ciascun partecipante, anche il più riservato, abbia la possibilità di avere uno spazio di crescita ed espressione consono alla propria sensibilità. L’artista terapista ha, infine, il dovere di fornire una sorta di “bolla” dove ognuno riesca a trovare beneficio terapeutico dall’esperienza.
La missione del terapista d’arte è quella di costruire ponti dove il mondo e la società mettono muri. È quella di fornire delle corde di salvataggio ad ognuno per permettere di recuperare “il bambino perso” in ognuno di noi e permetterci di ricominciare a vedere il mondo con i suoi occhi. In definitiva, la missione del terapista d’arte è quella di creare delle bolle di speranza in ambienti e situazioni avverse. Delle bolle come piccoli semi pronti a germogliare in autonomia in futuro.
4) Veniamo all’importanza delle parole, e in generale della comunicazione, nella professione di terapista d’arte. In primo luogo, ci puoi chiarire la differenza tra i concetti di “terapeutica artistica” e “arte-terapia”? Qual è quello più adatto alla tua mansione?
La Terapeutica Artistica è oggetto del mio corso di Laurea. È una disciplina che propone un nuovo metodo di approccio al fenomeno artistico come possibilità di un percorso di cura, in condizioni di disagio psicologico, emotivo e sociale. L’Artista Terapista è un esperto del linguaggio creativo-artistico ed è in possesso dei mezzi espressivi artistici e psicologici coadiuvati dalla corretta introduzione al linguaggio della cura. Questa figura si integra sinergicamente con i progetti riabilitativi, educativi, sociali e con quelli di umanizzazione delle strutture sanitarie. La Terapeutica Artistica si è sviluppata negli ultimi anni, prendendo spunto dall’Arte terapia, una disciplina già consolidata .
Tuttavia, a differenza dell’Arte terapia, la Terapeutica Artistica si propone di non analizzare in chiave psicoanalitica il prodotto artistico dei partecipanti, bensì di accompagnarli durante il processo artistico-creativo, instaurando un dialogo maieutico e un rapporto di reciproco scambio tra il presente soggetto e la superficie creativa. Il processo terapeutico dell’azione è dato, infatti, dal percorso stesso che il corpo svolge plasmando la materia ed entrando in relazione con essa. Dal fare pratico, dall’incontro con il mondo artistico la persona resta plasmata e acquisisce maggior conoscenza della propria identità, che vede riflessa nell’opera costituita dal suo stesso fare. Non meno importante è il concetto di “opera condivisa”. Anche in questo caso il concetto di condivisione riguarda il momento processuale artistico ed i legami che si instaurano con la condivisione.
5) In qualità di terapista d’arte, qual è la forma di comunicazione che prediligi e utilizzi maggiormente nei tuoi laboratori e attività?
Ringrazio per questa domanda! Poiché mi permetterà di far meglio comprendere anche il modo in cui mi esprimo e del quale ho accennato sopra.
Prediligo la metafora, non per forza parlata, intesa come un’analogia che non viene resa esplicita, ovvero un elemento che viene utilizzato al posto di un altro. Il potere di questa figura retorica è la forza espressiva ed evocativa data dall’accostamento di questo elemento inusuale in quel contesto ma paradossalmente molto utile nei miei laboratori artistico terapeutici. Infatti, vengono utilizzate come punti di partenza. Spesso queste metafore provengono dal mondo della natura, e trovano riscontro in noi riecheggiando nel nostro essere suggerendoci aspetti prima nascosti.
6) Secondo la tua esperienza, in che modo la parola, scritta o verbale, può rappresentare una “gabbia” nell’esprimere noi stessi?
Spesso la parola (e non parlo di creatività linguistica) viene utilizzata in modo freddo e razionale. Questo in alcuni ambiti è utile ed essenziale. Ma quando si ha a che fare con le emozioni, con le sensazioni, le percezioni? Quando si ha a che fare con dei traumi?
Leggendo questa domanda subito mi è tornato in mente quando, durante il corso accademico, partecipai ad un tirocinio con ragazzi che presentavano mutismo selettivo, un disturbo d’ansia che si manifesta di solito in età evolutiva, caratterizzato dall’assenza e dal rifiuto di comunicazione verbale in alcune situazioni sociali.
Cosa fare quando non puoi utilizzare la parola ed anzi quando proprio essa è stata sacrificata come mezzo di comunicazione? Certo il fine sarebbe stato poi quello di sbloccare questo blocco, ma come? Lì l’espressività artistica e la condivisione nei laboratori ha trovato terreno fertile: comunicare con sguardi, con sorrisi, con gesti, riprendere la fiducia passando da una superficie e dai materiali.
E quindi sì, spesso la parola soprattutto quando pretende, o si pretende che essa descriva pienamente una persona, la mette in gabbia, le preclude di potersi sentire libero, le preclude di “Essere”, di esprimersi agli occhi degli altri, di chi non ci conosce, di chi crede di conoscerci. Preclude la libertà di esprimersi di essere e di poter essere. La libertà di espressione artistica, invece, ci permette di essere meno univoci, di poter essere meno chiusi in una singola categoria. Io posso essere una e l’altra cosa, posso cambiare. Sono fluido, non sono solo ragione o solo cuore. Io sono libero.
7) Quanto è importante, nel tuo lavoro, il concetto di “sentirsi liberi”?
Molto!! Per quel che mi riguarda è il secondo messaggio che deve passare all’interno della “bolla” artistico-terapeutica. La prima cosa è il sentirsi al sicuro. Stiamo parlando di situazioni diverse, ma spesso dove si è presentato un trauma o un disagio, e questa è quindi una richiesta reciproca per il terapeuta ed il fruitore, le basi per un rapporto di fiducia ed un percorso di crescita. E’ molto importante come detto sopra non sentirsi etichettati, non sentirsi analizzati, differenza alla base della Terapeutica artistica. È molto importante sentirsi liberi di esprimersi, ovviamente nel limite della sicurezza di tutti.
8) In che modo l’arte, generalmente intesa, può essere, appunto, terapeutica? Come e perché può esserci utile per rielaborare dei traumi o, semplicemente, per esprimere noi stessi?
L’arte intesa come “bisogno” e non come “consegna” ci permette di esorcizzare qualcosa che a parole non riusciamo, di mostrare il nostro dolore usando espressioni forti. Spesso l’autolesionismo trasportato sul foglio, nella creta, nella o sulla materia salva il nostro corpo, esorcizza il nostro dolore! Lo tira fuori, lo rende visibile agli altri, ma in primo luogo a noi stessi. In questo modo il dolore, il trauma, la paura, la tristezza, la felicità che ci si presenta davanti non è più qualcosa di nascosto e subdolo; certo poi si ha il bisogno di una figura professionale e preparata ad accogliere gli scheletri che abbiamo tirato fuori dai nostri armadi. Per questo spesso si lavora in equipe con diverse figure professionali. La creatività artistica ci permette di esprimerci con più sfaccettature, senza precluderci in termini autoreferenziali ed univoci. Forse è un modo di comunicare più ancestrale lontano dalle costruzioni stilistiche.
9) Che difficoltà riscontri nel far capire agli altri il senso e la funzione delle attività? È più difficile lavorare con ragazzi o adulti?
“Non so disegnare, non sono mai stato capace, a scuola prendevo insufficiente”;
“Non darmi una matita in mano che non so nemmeno come si tiene”;
“Visto che bello ho usato la griglia, l’ ho ricalcato”.
Il primo blocco che trovo è questo. Purtroppo spesso nelle esperienze scolastiche ci hanno inculcato questa idea di arte da ricalco, arte da copia, di essere dotati, di lavoretti natalizi vuoti di significato terapeutico; magari belli, niente da dire, ma la terapeutica artistica non ha a che fare con niente di tutto questo.
Quello da cui nasce l’arte è un bisogno, l’arte per quel che mi riguarda si nutre delle nostre diversità le esalta, non le appiattisce, non le standardizza. L’arte è portatrice di messaggi, di una profondità che va ben oltre il disegno, il lavoretto, il compito. L’arte è un bisogno e questo per meccanismo evolutivo umano lo sanno molto meglio i piccoli che con le mani toccano la materia, si sporcano, non usano artefici ma sentono ancora quel legame ancestrale con la materia. Quindi sì, quasi sempre è più facile condividere questo con i ragazzi che con gli adulti, rimanere in contatto con metafore e fantasia, non rimanere fossilizzati nella razionalità.
“E quindi? È tutto qui?”;
“Ci sono cose più importanti che i disegnini”;
“Ho disegnato una linea e ora cosa faccio? Perché?”.
L’altra difficoltà è quella della meccanizzazione del processo artistico-creativo, il non vedere nulla oltre, il non sentire il bisogno, e quindi senza colpe non comprendere che questo è molto importante per qualcun altro, sminuendo e minimizzando il bisogno.
10) In un mondo ancora troppo “stigmatizzato”, che spazio trova la terapeutica artistica?
Davvero poco spazio, quando invece il bisogno è davvero ampio. Questo perché non possiamo giustamente dimostrare a livello medico-statistico ed immediato con delle analisi l’utilità del trattamento. Spesso, soprattutto affacciandosi nel mondo del lavoro, il potenziale non viene compreso e declassato a semplici abbellimenti per strutture o a volontariato.
11) Che ruolo e che importanza ricoprono, nel tuo lavoro, il linguaggio non verbale? Perché è importante collaborare con altro sfruttando altre vie comunicative che non siano la parola?
Un ruolo fondamentale! Spesso le situazioni che si presentano ti permettono di instaurare dei legami differenti da quelli verbali; dei legami nuovi, ma che sovente risultano salvifici per alcune circostanze e per i fruitori. La collaborazione arricchisce perché quel che offro io lascia qualcosa a te e quel che offri tu lascia qualcosa a me, andando a creare qualche cosa di nuovo.
Vorrei raccontarvi di due esperienze. Durante gli anni in accademia, ho svolto un tirocinio dove purtroppo ad un ragazzo non vedente era stato precluso di partecipare. Al momento dell’installazione il ragazzo si è offerto di scrivere a macchina Braille le didascalie descrittive della mostra. Anche lui aveva collaborato alla mostra e dato qualcosa in più.
Un altro episodio che vi voglio raccontare è successo poco tempo fa. Ho avuto la possibilità di installare un mio lavoro all’interno di una mostra che aveva come tema la salute mentale. Ecco un estratto dell’opera d’arte che permetterà di capire di cosa stiamo parlando.
“Vuoti riempiti”:
Un lavoro sull’Agorafobia: (dal greco αγορά : piazza e φοβία : paura, etimologicamente “paura della piazza”) è la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all’aperto o affollati, temendo di non riuscire a controllare la situazione.
Così, le crepe trovate in luoghi sconosciuti sono diventate, appunto per metafora, le ferite della mia agorafobia. Le foto, attraverso le quali sono state immortalate, sono diventate il metodo artistico-terapeutico che mi ha accompagnato nei momenti di transizione: con ago e filo ho deciso di intervenire per cucire una sorta di legame con esse, per riempirle di un vissuto tutto mio attraverso i buchi lasciati dall’ago e ri-riempiti dal filo.
Durante la visita alla mostra un signore ipovedente si è avvicinato alle foto ed ha iniziato a sfiorare la superficie… Quello che per alcuni dei presenti era un gesto disdicevole è stato per me motivo di brividi a fior di pelle. Senza aver realizzato razionalmente ero riuscita a rendere la mia opera fruibile anche a lui; anche lui era riuscito a sentire quei vuoti riempiti e, anzi, molti dei presenti distratti dal dono della vista avevano perso questo dettaglio delle cuciture. Infatti, nella sala era un continuo di gente che tornava a costatare con la vista che: “Sì, le fotografie erano state cucite e non colorate”. Quindi, lui era riuscito a rendere l’opera fruibile anche ai vedenti.
12) Ti senti di aggiungere altro riguardo il ruolo della comunicazione nella tua professione?
Sì, intanto vorrei ringraziare Silvia per queste domande: è sempre bello ripensare al perché si è deciso d’intraprendere un percorso.
Vorrei poi aggiungere questo: non dobbiamo aver paura di condividere e di mostrarci per come siamo, di trovare modi diversi per esprimerci, modi che magari non sembrino fare per noi. Ma, in fondo, chi lo decide?
Cominciamo con il comunicare con noi stessi; non perdiamo la connessione con il nostro essere, con quello che siamo. Il mondo ha bisogno di persone felici, il mondo ha bisogno di condivisione.
Stupendo
Grazie mille!!!