1. Pillole letterarie
“Sai che pure le più belle cose hanno una fine”. Così cantano i Club Dogo.
Giusto. Nelle esperienze quotidiane ci si aspetta che ad ogni inizio consegui sempre un finale, quasi fosse una sorta di causa-effetto. Mettere un punto alle nostre attività, alle nostre relazioni o ai nostri trascorsi ci fa sentire in qualche modo appagati, in pace con noi stessi. Sperimentare la fine di un qualcosa, bella o brutta che sia, ci permette di rielaborare i sentimenti e le emozioni provati, anche se funesti.
Vivere e subire il finale, insomma, è essenziale per poter addivenire al tanto agognato “voltare pagina”.
Ma siamo certi che ogni esperienza abbia un andamento circolare?
Quante volte, nella vita, abbiamo saggiato la sensazione del “sentirsi l’amaro in bocca” perché non siamo stati in grado, o non ci è stato permesso, di trovare le risposte a quelle domande (o aspettative) che ci siamo posti a ogni inizio?
Ebbene, non solo nella realtà. Talvolta anche un romanzo, o un film, si conclude lasciando qualcosa in sospeso. Non tutti i nodi drammaturgici vengono per forza sciolti.
In letteratura, si distingue tra finale chiuso e finale aperto, a seconda che l’autore fornisca o meno le opportune risposte a ogni arco narrativo.
In particolare, la struttura più diffusa e utilizzata dagli scrittori, sin dai tempi della letteratura classica e poi moderna, sembra essere quella con il finale chiuso. La conclusione di ogni trama e sottotrama, oltre a riportare il protagonista al punto di partenza, sazia più efficacemente la bramosia del lettore di sapere, a tutti i costi, “come va a finire”. Dunque, è essenziale per rielaborare quanto da ciascuno vissuto e provato pagina dopo pagina.
Diversamente, alcuni narratori optano per un finale aperto; sicuramente una scelta diversa ma non meno coraggiosa. In questo caso, non tutti i nodi drammaturgici vengono svelati dall’autore, il quale preferisce lasciare questioni in sospeso. Tale scelta, lungi dall’essere dettata da codardia, è al contrario perfettamente consapevole. Infatti, questa tecnica è volta a dare un nuovo ruolo al lettore: non più mero soggetto passivo, ma vero e proprio artefice della narrazione. Ognuno, dunque, può trarre diverse risposte drammaturgiche a seconda della propria morale, delle proprie esperienze e dei propri bisogni.
2. La letteratura… in numeri
Senza alcuna pretesa di scientificità, sui miei canali Social ho lanciato un sondaggio, il cui target era assolutamente eterogeneo (circa il sesso e l’età), riguardante la preferenza fra finale chiuso o aperto.
Ecco, dunque, i risultati:
Dal grafico emerge come il 65% dei votanti preferisca il finale chiuso e solo il 35% (quindi circa la metà) prediliga quello aperto.
Rimanendo sempre in ambito matematico, in particolare geometrico, Christopher Vloger, nel suo capolavoro “Il viaggio dell’Eroe”, ha rappresentato il modello di storia con finale chiuso mediante la forma del cerchio, ove la conclusione si ricongiunge con l’inizio. Diversamente, la figura che meglio rappresenta il finale aperto è quella della retta.
3. Un finale, non necessariamente una fine
Dunque, ogni storia, così come ogni vissuto, ha un inizio e un finale, che non corrisponde necessariamente a una fine. Le esperienze, reali o solo sperimentate attraverso l’immaginazione, devono forzatamente arrivare a un punto conclusivo, rispondendo alla semplice regola “nasci-cresci-muori”.
Ma ciò non per forza la fine corrisponde allo svelamento di tutte le domande o i dubbi che ci hanno accompagnato durante il viaggio. A volte, alcuni nodi non vedranno mai uno scioglimento, se non siamo noi stessi a darglielo.
Ciò è proprio quello che caratterizza le storie a finale aperto, ove ogni lettore potrà fornire le proprie risposte agli interrogativi irrisolti dall’autore, divenendo così artefice delle sorti dei personaggi e dell’intero racconto.
Difatti, ognuno di noi sarà inconsciamente portato a intervenire, rifiutandosi di lasciare gli avvenimenti inconclusi. Tale nostra propensione, secondo studi psicologici, cavalca l’onda dell’effetto Zeigarnik, per cui il cervello ricorda con maggior facilità le attività non terminate. Così facendo, quindi, ciascuno sarà spinto dal costante desiderio di trovare una qualche risposta ad ogni questione lasciata in sospeso. Ciò permetterà al lettore di fornire la propria e personale conclusione del racconto, sentendo ancor più “sua” l’intera opera.