32° settimana: CAUGHT/PRESO
Quando mi sposai avevo solo diciassette anni. All’epoca, mio marito, dieci anni più grande di me, lo avevo visto sì e no cinque volte, quanto bastava a rendermi conto dell’uomo violento e possessivo che si nascondeva dietro i suoi lineamenti miti.
Me lo presentò mio papà, poco dopo le prime mestruazioni. Mi ero fatta signorina e, oramai, avrei dovuto esperire i miei compiti di donna: accudire un uomo, sfamare i suoi appetiti sessuali e crescere la prole. In silenzio. Proprio come mamma.
Per non interrompere la tradizione, mio padre mi affidò al figlio di un signorotto del paese. In questo modo, i miei genitori, disponendo di terre quale contropartita della mia verginità, avrebbero potuto crescere i miei fratelli e, forse, emanciparsi.
Ricordo ancora il giorno in cui quell’essere spregevole che per anni è stato mio marito mi ha PRESO in sposa. Era un caldo giorno di giugno e, nonostante l’aria di festa che si respirava, per me era come se mi accingessi al mio stesso funerale.
La prima notte di nozze fu anche peggiore di come la immaginassi. Oltre a provare la vergogna e la ripugnanza di sentirmi nuda e violata da quello che per me, allora come adesso, era un perfetto sconosciuto, dovetti anche subire l’umiliazione di vedere il succo del mio fiore fino allora intatto mostrato alla folla. Semplice trofeo di caccia.
Fu con la nascita della mia primogenita che le cose cambiarono. Cambiarono in peggio. Il mio corpo, non più intatto, sembrava aver perso anche la capacità di dare piacere, e tale peccato non me lo si poteva perdonare.
Da donna passai a essere mera schiava, buona a svolgere ripetitive faccende domestiche e riempirmi il ventre del seme di mio marito solamente per regalargli il tanto agognato figlio maschio che avrebbe portato avanti quella indegna stirpe.
Fu proprio quando partorii Filippo che decisi di scappare, portando via i miei figli. Il mio bambino non poteva essere come loro.