Calmanti

18° settimana: DOCTOR/MEDICO

Presi coraggio.

Guardai per l’ultima volta i suoi occhi vitrei, sfiorandoli appena con pollice e indice. Glieli chiusi, riflettendo sul fatto che non avrebbero mai più rivisto questo Mondo.

Afferrai la cerniera della sacca mortuaria, la quale aveva già inghiottito più di metà corpo. Esanime. Salii fin poco sotto la gola. Titubai. La mia mano tremava, indugiando a pochi centimetri dal segno violaceo che, beffardo, era lì, a sentenziare l’errore e la superficialità di tante, troppe, persone. Compreso me.

Respirai a fondo, prima di chiudere definitivamente la sacca.

Salutai Abdul con una preghiera, anche se rivolta a un Dio differente dal suo.

Mi sedetti nel mio ambulatorio, pensando a quanto sia frustrante fare il MEDICO in un carcere. Curare gli ultimi, forse i peggiori, eppure sentirli così umani. Talvolta, ti ci affezioni anche. Non sono più il reato che hanno commesso, ma persone da curare. Soprattutto sostenere, cercando, allo stesso tempo, di non farle sottrarre moralmente alle loro colpe. Più o meno nitide.

Ma con Abdul è stato diverso.

***

Da studente modello di medicina, mi sarebbe piaciuto diventare ortopedico. Magari anche stimato; uno di quelli con la nomea, insomma. All’ultimo anno di università, mi ero già informato per la specialistica: Venezia e Trieste, le opzioni.

Poi, in quella calda estate, tutto è cambiato. Con un po’ di malincuore, rinunciai alle vacanze agostane a favore di due mesi di tirocinio in carcere.

Oltre le sbarre e i muri di cemento, io ci lasciai il cuore. Era quella la mia strada.

 A trentadue anni divenni MEDICO dell’istituto penitenziario di Novara, dove tutt’oggi presto servizio.

Da allora ne ho viste di tutti i colori. Per esperienza so che quasi ogni detenuto si proclama innocente e, forse, con una piccola parte di sé ci crede per davvero. Ma per la maggioranza di loro non è così: la Dea bendata ci ha visto lungo.

Cosa che, invece, non ha fatto con Abdul, giovane nordafricano detenuto, in via cautelare, per violenza sessuale sulla vicina di casa.

In attesa del verdetto del riesame, spergiurava la sua innocenza. Mi implorava, pregandomi come uomo di credergli e come MEDICO di aiutarlo a morire. Non sopportava il trattamento che gli stavano riservando.

Forte della mia esperienza, presi la situazione sottogamba, pensando di aver davanti a me l’ennesimo bugiardo. Gli prescrissi dei calmanti. Tutto qui.

Sentivo il cuore in pace. Fino al giorno in cui una guardia mi chiamò, paonazzo e trafelato.

Mi condusse nella cella di Abdul. Da un gancio appeso al soffitto, al posto della TV, penzolava un lenzuolo bianco, rudimentale cappio con cui il ragazzo si era tolto la vita.

Non potei fare nulla, se non constatarne la morte.

Dopo averlo adagiato con cura, lo issai sulla barella e, fra singhiozzi trattenuti, lo portai in ambulatorio.

Entrai e notai sulla mia scrivania un foglio che, quando uscii, non c’era. Ne sono sicuro.

Abdul Alhayres: annullamento dell’ordinanza e scarcerazione immediata.

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Pubblicato da Silvia Schenatti

Silvia Schenatti (Lecco, 1992) è cresciuta tra il lecchese e la Valmalenco. Consegue il diploma al Liceo socio-psico-pedagogico di Monticello Brianza e si laurea, con lode, in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale. Terminati il tirocinio e la pratica forense, nel 2021 ottiene il titolo di Avvocato. Da sempre amante della scrittura, “L’inferno dentro i suoi occhi” è la sua opera prima.

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